[La terza parte di questo articolo si trova qui.]
Sei giustamente considerato uno dei fotografi rock più famosi e influenti della storia. Un mio amico che fotografa spesso concerti rock mi ha detto: “per tutti noi, Armando Gallo è Dio!” Hai iniziato con la pellicola, naturalmente, e alcune delle tue foto sono diventate copertine di album assolutamente storici, come “Seconds Out” dei Genesis o “Plays Live” di Peter Gabriel. Come ti sei avvicinato alla fotografia sul palco?
Stiamo parlando di pellicola, e anche di un’epoca in cui uno spettacolo dal vivo aveva pochissime luci. Parliamo dei tardi anni ’60 e dei primi anni ’70, quando nei club avevano alcune luci rosse e alcune luci gialle, magari una lucina blu – e niente altro. Non c’era molta luce sul palco. Come giornalista e fotografo, in quei giorni, imparavo mano a mano che procedevo: imparavo a scrivere, a fare le interviste e anche a fotografare. E avevo forse a disposizione un rullino da 36 pose… avevo poco più di vent’anni, non avevo molti soldi…
Ti faccio un esempio: parliamo degli Yes, nel 1971. Stavo andando al Rainbow Theatre, perché Rick Wakeman mi portò alle loro prove. Rick si era appena unito al gruppo. Lo conoscevo, perché aveva suonato con The Strawbs. Così, lui si unisce agli Yes, e siamo nell’ottobre del 1971. Venne nel mio appartamento a Kilburn per un’intervista lo stesso giorno che gli Yes avrebbero suonato al Rainbow, e alla fine mi dice “vieni alle prove”, e avevo soltanto un rullino da 36 pose. Avevo la mia borsettina, una sola fotocamera e un solo obiettivo. Feci cinque foto alla fine dell’intervista, e con il resto della pellicola… che era forse da 200 ASA, o da 400 ASA, cercai di fare delle foto in bianco e nero al gruppo mentre suonava.
Presto mi accorsi che la pellicola a colori per la luce diurna, Kodachrome, era molto calda nei gialli e nei rossi, ma se c’era una luce rossa era piatta: non succedeva niente. Per usarla, mi servivano delle luci blu. Quindi provai a usare la Ektachrome per luce artificiale. La Ektachrome per la luce a tungsteno non aveva una sensiblità di 400 ASA… arrivava al massimo a 160 ASA, nel 1971.
A un certo punto stavo facendo le foto a un concerto dei Genesis, e in un brano c’era Peter Gabriel con della vernice fluorescente sotto gli occhi e delle ali di pipistrello. Potevi vedere il trucco solo se il palco era totalmente al buio. Come fai a fare una foto all’oscurità? Mi accorsi che se puntavo i gomiti contro la mia pancia e li usavo come un treppiede, e aprivo il diaframma fino a 1.2, con un’esposizione di 1/15″… ehi, funzionava! Vedevo gli occhi, vedevo le ali di pipistrello… ma era ancora un po’ troppo scura.
C’era questa bellissima donna, Jane, che dirigeva il laboratorio fotografico Redfern a Charing Cross Road, che mI disse: “Armando, sai che possiamo spingere la pellicola a 320 ASA?”
“Cosa intendi?”
“Intendo che la teniamo nello sviluppo un po’ più a lungo, così si schiarisce e le ombre si aprono.”
Così ci provai, e la spingemmo su di uno stop nello sviluppo. A quel punto diedi di matto, e provammo a spingere di due stop: e funzionò! Usavo una pellicola da 160 ASA tirandola fino a 640 ASA… e potevo fotografare qualsiasi cosa!
Il mio pensiero fu: “Posso fotografare quello che voglio! Questa è una cosa grandissima… non ho bisogno di andare a scuola, non ho bisogno di andare da nessuna parte… devo solo trovare il momento giusto per scattare.” Io so quando tutti scattano: non dovresti premere il pulsante di scatto quando il chitarrista sta facendo il suo assolo o quando il cantante sta cantando al massimo. Il momento giusto è quando il cantante si allontana dal microfono, è lì che catturi il momento magico… e dovresti anche stare distante dagli altri fotografi, così hai la possibilità di riprendere da un angolo che nessun altro avrà. Poi, se sei abbastanza furbo, puoi giocare con le luci da dietro. A volte non arriva abbastanza luce dal fronte del palco, e hai solo quelle posteriori: le persone escono come silhouettes, ma puoi utilizzare le luci per comporre qualcosa… e assomiglia molto a un dipinto. È così che lo fai. E poi, a volte hai fortuna, a volte no. E dagli errori si impara: puoi partire da lì.
Che mi dici della fotografia digitale, che è arrivata dopo?
Puoi fare di tutto con la fotografia digitale. Non è più divertente. Ti limiti a scattare, e scattare e poi ancora scattare… sensibilità? No problem, puoi scattare anche nella completa oscurità. E poi ora c’è tanta di quella luce sul palco… non mi interessava scattare foto ai Genesis negli anni ’80, quando avevano le Varilights: c’erano cascate di luce ovunque. Io non voglio fotografare le luci, voglio fotografare chi suona.
Che posizione hai nei confronti della post-produzione dei tuoi scatti? Appartieni alla “vecchia scuola” che suggerisce di lasciarli più o meno come sono? Adesso tutto tende a essere molto artificiale… in Photoshop si può fare quasi tutto.
Ho iniziato a usare Photoshop parecchi anni fa, più o meno quando Peter Gabriel fece il tour “Up”, ricordi? – quello in cui aveva quella grande sfera. Dev’essere stato attorno al 2002. Fece due concerti a Città del Messico, senza pubblicità perché il tour americano sarebbe iniziato di lì a poco. Quindi… il 2 novembre di quell’anno andai a Città del Messico, dia de los muertos, e chiamai Peter in albergo: “Dove sei…?”
“Sono al nono piano…”
“Io al settimo…”
“Dai che ci incontriamo all’ottavo!”, dice Pete. (scoppio di risa)
E lo facemmo… ci incontrammo all’ottavo piano, come due tizi anzianotti che non si vedevano da un bel po’, e poi vidi il concerto. Entrai assieme al pubblico normale, comprai tutta questa roba pirata fuori dall’arena: accendini con sopra la faccia di Peter, tazzine per il caffè (o Tequila shots) con sopra la faccia di Peter di nuovo… Scattavo su pellicola, naturalmente, e avevo questa fotocamera compatta Kodak Gold che era stato un regalo speciale di mia moglie. Il concerto fu così bello che chiesi di fotografare anche quello del giorno successivo, stavolta con una fotocamera professionale.
Quando tornai, avevo bisogno di inviare le immagini a Real World, che è il suo management, e un mio amico mi disse: “puoi digitalizzarle”. Mi comprai uno scanner Kodak 2000 e digitalizzai tutte le diapositive, gli diedi una passata in Photoshop e le mandai a Peter in bassa risoluzione. “Quelle che ti piacciono, te le mando in alta…” E mi chiamò: “Verresti a fotografare il concerto al Madison Square Garden?” Così andai a New York, scattai e passai le immagini in Photoshop dopo averle digitalizzate. E a quel punto, ovviamente, iniziai a digitalizzare i Led Zeppelin a Milano, Blondie… tutto l’archivio del passato. Tutto quello che facevo in Photoshop però era ripulire le immagini, enfatizzare un po’ il dettaglio, a volte, ma non ho mai cambiato il colore. Non ho mai manipolato granché. Quello che vorrei fare ora… le fotografie nella App potrebbero essere molto migliori, anche perché nella App sono in bassa risoluzione, per evitare che qualcuno le ingrandisca e faccia degli screenshot. Siccome ho intenzione di fare delle edizioni limitate di stampe artistiche, vorrei lavorarci.
Di fatto, c’è qualcuno che ci sta lavorando – c’è un tizio in Italia che si chiama Marco Olivotto, lo conosci? (risate) E poi c’è Russell, che faceva le poche cose che realizzavo in bianco e nero a Hollywood… l’ho ritrovato dopo più di trent’anni… ha uno scanner a tamburo, rifotografa gli originali e fa le scansioni. Riesce a riprodurre l’impossibile addirittura da una stampa a contatto.
Quindi, la tecnologia è incredibile, ma è anche bello mantenere l’idea originale. Prendi ad esempio la copertina di “Seconds Out”: è troppo virata al marrone. L’ho scattata con una pellicola per luce artificiale e l’ho spinta a 640 ASA, quindi c’è un bel po’ di blu nell’originale, ma non nella stampa sull’album. L’ho stampata dalla diapositiva originale, ad alta qualità, e il blu è lì. Perché cambiarla? Perché farla più calda o più rossa? Mi piace mantenere l’originale a meno che non ci sia un errore davvero grosso. D’altronde dopo tutto questo tempo, effettivamente, parte del colore è scomparso dalle vecchie diapositive. La tecnologia può forse aiutarmi a recuperarlo.
Nel 1972, la prima sessione fotografica che feci con i Genesis, un mese prima che venissero in Italia per il loro primo tour, fu in un luogo molto buio a Plumstead, un club chiamato “The Inferno” che era bruciato: era umido e c’era un’unica, nuda lampadina. Era l’unica luce nel luogo dove stavano provando. Penso che scattai quella foto con un tempo di 1/30″, e infatti puoi vedere che il cembalo è mosso e che le mani di Tony si muovono sulla tastiera… ma cattura l’atmosfera della prova e puoi quasi sentire l’umidità del luogo, guardandola. Poi li portai all’esterno: il club era rimasto chiuso per circa un anno, e quindi le erbacce dell’estate si erano seccate, e li piazzai proprio in mezzo. A fianco c’era uno steccato, e li misi dietro lo steccato perché… era come se fossero irraggiungibili, capisci? Per come io li percepivo quando erano sul palco… non potevi toccarli, in un certo senso. E poi arrivava Peter – “Perché non mi tocchi? Toccami!” cantava. [È la sezione finale di “The Musical Box”] Quella fu la prima foto perché… davvero, erano così distanti e non si poteva toccarli, ma allo stesso tempo chiedevano di essere toccati. Beh, il colore di quelle immagini si è sbiadito, quindi… si potrebbero fare in bianco e nero, oppure sarebbe bello recuperare parte di quei colori. Penso di averti mandato una di quelle foto, vero?
Sì, me l’hai mandata. Ora, passo a quella che è forse la domanda più difficile di tutta l’intervista: hai fin troppe fotografie, ma se dovessi tenerne solo una tra quelle che hai fatto… quella che preferisci in assoluto: quale sarebbe? Diciamo, la più simbolica…
(Lunghissimo silenzio.)
Ti permetto di cambiare la tua risposta domani, e anche dopodomani, ma – al volo – scegline una. Almeno, una tra quelle a cui sei più intimamente affezionato.
Forse la foto di “Seconds Out”. Quella foto, quando la scattai… pensai che sarebbe stata la copertina. Poi la scattai di nuovo dal davanti, con la Kodachrome per luce diurna.
Questa che dici è quella gialla, giusto?
Esattamente, è quella color oro! È quella che ho usato per la copertina del libro. Ma quella sull’album invece è una foto simbolica: il volto di Steve Hackett è invisibile. Steve aveva lasciato il gruppo due soli giorni prima che la copertina venisse scelta, dagli unici tre superstiti del complesso: Tony, Mike e Phil. Steve se ne andò durante un mix di “Seconds Out”; forse trovava difficile sopportare un altro mix che avrebbe messo in evidenza le tastiere e penalizzato la chitarra, almeno dal suo punto di vista. Quindi prese e se ne andò, e non tornò mai più indietro. Non disse più una parola.
E poi c’è la foto sul retro di copertina di “Seconds Out”. Quella è un’altra foto che, quando la scattai, pensai – “questa sarà il retro della copertina”. Avrebbe potuto essere la copertina anteriore, perché era molto rappresentativa dei Genesis all’epoca… era “Supper’s Ready”, “666”, “The New Jerusalem”, e quando scattai la foto all’inizio del tour di “Wind And Wuthering” al Rainbow, mi sembrava quasi un momento religioso, sai? Quando gliela mostrai dissi a loro: “questa è la copertina posteriore” e loro risposero: “sì!”. Fatto. Nessuna discussione.
Un’altra foto potrebbe essere quella della copertina di “Plays Live”, di Peter Gabriel, perché stavano cercando un’immagine per l’album dal vivo, e quella per me era una delle poche foto dove puoi vedere gli occhi di Peter… Non si capisce mai che Peter ha gli occhi azzurri, dalle foto. L’originale era diverso, era messo così… (alza il braccio destro). Quando… credo Hipgnosis, e in particolare probabilmente Storm Thorgerson la tagliò così com’è adesso… wow, pensai, è un taglio pazzesco! Non avrei mai pensato di tagliarla così. Fu un taglio incredibile. Quindi è la mia foto, ma è anche la foto che un editor realizzò. Voglio dire, puoi anche fare la foto, ma quando la tagli, chiunque la ritagli in un certo senso la rende anche sua.
Stiamo parlando di Storm Thorgerson, che era uno dei massimi talenti al mondo…
Lo so, e la sua morte avvenuta recentemente mi ha molto rattristato. Che immaginazione incredibile aveva… Gail Colson, che all’epoca era la manager di Peter, mi disse che era stato lui a fare il taglio. Poi un’altra volta disse “non è stato Storm a farlo…” Quindi dovrò scoprire chi fu, perché forse se n’è dimenticata, non so. E Storm purtroppo non è qui per potercelo dire.
Poi ci sono un sacco di foto degli U2 che non hanno mai visto la luce del giorno perché scattavo per loro, e loro le usavano per la loro rivista, per le loro cose, le T-Shirts, sai come va… e ne hanno centinaia e centinaia nei loro archivi, delle quali hanno acquistato i diritti da me. In pratica significava che io scattavo ai concerti e loro acquisivano i diritti di fare ciò che volevano con le fotografie.
Un’altra foto particolare è stata usata sulla copertina di “Time Out”, la rivista… è una foto di Bono che feci a Las Vegas nel 1987: era una notte di luna piena, e stavo giocando con le luci posteriori del palco… cercavo di averne una che assomigliasse a una luna piena, e lui andò fuori fuoco. Così quando vidi la foto pensai: “ah, questa l’ho cannata di brutto” – e la buttai via. Ma quando preparai il caricatore delle diapositive da mostrare al gruppo, andai deliberatamente a prenderla nel cestino, recuperai il fotogramma, lo misi in un telaietto e lo misi in prima posizione.
Quel giorno, l’assistente del loro manager, Ellen Darst, disse: “il gruppo vorrebbe vedere le foto, ma non vogliono nessuno mentre le guardano.”
“Beh, mi piacerebbe mostrargliele…”
“No, no, queste sono le loro foto e vogliono vederle per conto proprio.”
“Un attimo: queste sono le MIE foto del gruppo, ma capisco, quindi me ne starò qui fuori vicino alla piscina, OK?”
E così uscii dalla stanza dando un’ultima occhiata a proiettore e schermo, e pensai: “Buon Dio, quella diapositiva sarà la prima che vedranno di tutta la serie…”
Ero dimagrito, sai?, ero demoralizzato quando avevo lasciato Roma ed ero andato a vederli a Las Cruces nel New Mexico; era forse il quinto concerto del tour che avevo scelto distante da tutto il resto, perché era un posto dove potevo avere facilmente un pass come fotografo. Avevo avuto il permesso di fotografare tutto il concerto da Claudia, una donna afroamericana alta e bella che avevo incontrato in tour con i Rolling Stones un paio di anni prima. Era stata molto amica di Jimi Hendrix, e adesso curava le PR per gli U2. “Però vorranno vedere le fotografie”, mi disse. “Perfetto”, pensai.
Tre giorni dopo siamo a Los Angeles, al Sunset Marquis Hotel, e sono pronto per mostrare le foto al gruppo… e mi buttarono fuori dalla porta. Ero lì che aspettavo e mi accorsi che c’era Jack Healey seduto vicino alla piscina… era il presidente di Amnesty International. Lo avevo in una delle foto, nel libro su Peter Gabriel. Ne avevo alcune copie in macchina… Omnibus Press lo aveva pubblicato soltanto sei mesi prima. All’epoca, dopo avere lasciato la Fratelli Gallo, era l’unica cosa che possedevo. Così gliene portai una copia, gli parlai e lui fu molto amichevole e mi abbracciò quando gli firmai il libro… In quel momento arrivò Claudia. Mi disse – “Armando, la strada dell’amore si muove in modi misteriosi… il gruppo vorrebbe vederti.” Claudia era nella stanza quando Ellen Darst, l’assistente del loro manager Paul McGuinness, mi aveva chiesto di uscire, ed erano passati forse venti o trenta minuti, OK? E così… entro nella stanza e vedo quattro paia di occhi che mi danno le scariche elettriche… erano completamente… intendo, i quattro ragazzi del gruppo che si stavano chiedendo – “chi diavolo è questo tizio? Come ha fatto a fare queste foto?” Quando le avevo viste avevo pensato di avere sbagliato tutto: per me erano tutte fotografie sbagliate. Ma più tardi capii che erano foto che andavano fatte proprio in quel modo, capisci… erano un po’ mosse, erano fuori fuoco, ma per me rappresentavano il loro spettacolo. Penso che avevo improvvisato un po’.
Quando il gruppo mi vide, Bono iniziò a parlare, piano e con voce un po’ rauca: “ti abbiamo chiamato perché vogliamo dirti perché amiamo le tue foto”. Erano le una e mezza del pomeriggio e probabilmente si era appena svegliato, aveva un accappatoio bianco. Ora… questo era un gruppo che… senti un po’ questa: quel giorno era un martedì, e il lunedì erano finiti primi in classifica con il singolo “With Or Without You”, primi con l’album “The Joshua Tree”, sulla copertina di Rolling Stone e su quella di Time Magazine! Erano, senza alcuna esclusione, la migliore rock band del mondo, e avevano conquistato quella posizione dopo dieci anni di registrazioni e tournée. Gli U2 avevano appena realizzato il loro sogno di diventare i numeri uno. E questo gruppo mi viene a dire che io sono l’unico che riesce a catturare la loro energia sul palco. Io ero in cima al mondo, OK? “Sto facendo qualcosa di assolutamente giusto!” Pensavo di essere finito, e invece scopro che per qualche motivo, quel giorno, ero in sintonia con ciò che il mondo amava. È una sensazione fantastica che arriva molto raramente nella vita, quando dicono che tutte le stelle e i pianeti sono allineati per te. Quindi forse quella foto recuperata dalla spazzatura racconta più delle altre, e fu una foto che fece dire a Bono: “hey! Chi è questo fotografo?” È una foto molto mistica, capisci?, perché è Bono ma non è Bono, e viceversa. Le mie aspettative mi avevano quasi tradito… ma alla fine ho avuto il coraggio di recuperare la diapositiva dai rifiuti, montarla e proporla.
Su Time Magazine c’era la classica foto di lui che cantava (mima una posa con un microfono). E lui disse: “questa foto è orribile!” Perché capisci, quando ti allontani dal microfono, forse, probabilmente stai pensando alla prossima frase del testo, giusto? O forse stai pensando… intendo, sei in mezzo a una canzone, e c’è qualcosa che ti trasporta da qualche parte che tu, come artista, te ne ricorderai quando ti vedrai in quel momento. E questo era ciò che avevo, in quelle foto: solo questo. E Bono disse: “Pensi che le riviste pubblicheranno queste foto?”
“Sì, se gliele date gratis!”
“E come facciamo?”
“OK… fatemi scegliere venti diapositive… farò cinquanta duplicati di ciascuna: lasciate che lo faccia io. Ho un tizio che fa dei duplicati incredibili, a Roma. Li porterò di persona alla Island Records. La Island Records li darà a tutti i suoi associati, e tutte queste foto saranno su tutte le riviste del mondo.”
Bono disse a Ellen Darst: “beh, è un’idea splendida…”, e The Edge mi guarda e spara: “ti andrebbe di venire a fare le foto alle prove?” Io pensai – “e me lo chiedi…?” Ma dissi: “Certo, naturalmente!” E quello è ciò che amo fotografare: essere una mosca sul palco, quando il gruppo è lì nudo senza tutte le paillettes del concerto.
E così andai al soundcheck… era il 1987 e Fuji aveva fatto una pellicola a 1.600 ASA, che potevo tirare fino a 3.200 ASA, e ogni diapositiva era come il fotogramma di un film. Aveva grana, era marroncina… era davvero come estrarre un fotogramma da un film, dava quel tipo di sensazione. Quindi tornai in Italia, feci queste copie, andai a Londra, le consegnai alla Island Records, e mentre ero lì Ellen Darst mi chiamò da New York: “Facciamo l’ultimo concerto domani.”
“Eh, ma io sono qui dietro alle foto…”
“Oh, che peccato, dovresti essere qui.”
“Posso prendere un aereo e venire…”
“Vieni!”
E così andai a New York e fotografai l’ultimo concerto del tour americano alla Brendan Byrne Arena in New Jersey.
E infine c’è un’altra foto che trovo splendida, una di quelle che amo veramente: è una foto presa dallo spazio che sta tra il pubblico e il palco. Schiacciata contro la barriera c’è una ragazza con una bandiera irlandese, e sta cercando di raggiungere il palco, e Bono si stende a sua volta e le due mani si toccano. C’era lì Bono tutto allungato in avanti, e io avevo montato un filtro sull’obiettivo che spingeva l’immagine in avanti. E c’è l’unione, la fusione del palco con il pubblico, quando il palco diventa così bollente, e la folla è così bollente… e io me ne accorgo perché sono lì in mezzo, in trincea, un semplice essere umano che sopporta questo calore, e sudo come in una sauna – al punto che ho sempre dovuto portare qualcosa in testa per fermare il sudore prima che mi arrivasse negli occhi o sulle fotocamere. Quella particolare fotografia tratta dal concerto di Brendan Byrne venne pubblicata su Max in Italia a doppia pagina; all’epoca avevano un art director molto in gamba.
Dimmi il nome di un artista con il quale avresti voluto lavorare e con il quale non hai lavorato, per una ragione o per l’altra.
Forse… Direi David Bowie? Ho perso il treno con i Pink Floyd: e non so come, perché erano molto accessibili per me. Pensa che nel 1975, quando mi trasferii a Los Angeles, erano in tour con “Wish You Were Here” e non concedevano alcuna intervista, ma Nick Mason me ne fece fare una. E Roger Waters ci vide, in camerino, e disse: “come? stai facendo un’intervista?!” Al che Nick rispose: “ma… è Armando…” Alla fine dell’intervista gli chiesi perché, e mi spiegò questa cosa, che non stavano concedendo interviste. Rolling Stone li aveva seguiti in tournée per una settimana ma nessuno aveva parlato con i giornalisti. “Perché proprio io?”, chiesi a Nick Mason. “Perché ci comprasti il gelato a Piazza Navona…” (scoppio di risa) Sai, nel 1971, quando suonarono a Roma, andammo a Piazza Navona, si sedettero a sudare nel sole pomeridiano e ordinarono il gelato. C’era tutto il gruppo assieme ai manager Tony Howard e Steve O’Rourke, ma io pagai il conto. Lo feci per amore della musica che avevo ricevuto a partire da “Interstellar Overdrive” in avanti. E sai, Nick mi disse proprio così, ma forse era solo ciò che stava pensando in quel momento. Fu una bellissima cosa che lo avesse ricordato e me lo avesse detto.
Quella era la mia prima settimana a Los Angeles… buoni presagi in un posto nuovo, nuovi inizi. Ero pieno di cose da fare, ma avrebbe potuto succedere: avrei potuto fotografarli. D’altronde, li avevo incontrati negli anni ’60, gli avevo trovato concerti quando non stavano suonando per nulla e Dave Gilmour era appena entrato, e avevano bisogno di suonare… gli trovai un ingaggio da duecento sterline al Regent Street Polytechnic nel novembre 1968, quando di norma ne avrebbero forse prese cinquanta. Un mio amico, Michael Miles Berry, era a capo della Student Union e fu lui a pagare. Suonarono per tre ore con uno sfondo bianco e nient’altro.
Vorrei anche chiarire una cosa, già che ci sono: io non ho mai davvero lavorato per i Genesis. I Genesis non mi arruolarono fino al 1992, quando lo fecero per un breve tour solo inglese. Quell’anno mi chiamarono per fare le fotografie al tour “We Can’t Dance” in cui fecero solo concerti piccoli dove li avevano fatti vent’anni prima. Probabilmente ebbero l’idea – “chiamiamo Armando Gallo a fare le foto agli stessi concerti!” Gli chiesi cinquemila sterline e che venissero a prendermi all’aeroporto. Mi mandarono i soldi immediatamente, mi pagarono in anticipo. La gente pensa che io abbia lavorato per i Genesis per anni, ma non è vero. Quando feci il primo servizio con loro a Plumstead, nel febbraio 1972, il gruppo era così affiatato, ed erano così cortesi… ci trovammo benissimo assieme, quindi dissero alla Charisma che avevo fatto alcune foto, e la casa discografica mi chiamò: “possiamo vedere le foto? Abbiamo bisogno di foto per la promozione…” Ne comprarono dodici su trentasei e mi diedero venti sterline… al che pensai – mio Dio! All’epoca pagavo cinque sterline alla settimana di affitto, quindi venti sterline erano tante. Ma Gail Colson anni dopo mi disse che quelle erano le migliori foto che avessero mai avuto. Le quattro o cinque che vedi nel libro sono gli avanzi. Ce n’è una in bianco e nero che ho usato nel libro… ritagliarono la testa di Mike per l’album “Foxtrot”. Il mio nome è nell’album grazie a quel taglio. Ma lo scrissero come “Amando Gallo”… like Loving Gallo! Fu un errore, ma dopotutto non posso lamentarmi.
Senti… ho l’ultimissima domanda, ma forse è la più importante di tutte: e naturalmente vorrei ringraziarti per questa splendida chiacchierata. Ti sono molto grato, mi hai regalato un sacco del tuo tempo. Sono le due e mezza del mattino ma non sono per nulla stanco, anzi, sono molto elettrico. Quindi… tu sai che lavoro con molti giovani che si dedicano alla fotografia, alla grafica, alla post-produzione. Tutti questi ragazzi e ragazze hanno poco più di vent’anni, sono molto creativi e la maggior parte del tempo sono abbastanza spaventati dall’idea di non venire riconosciuti a causa della crisi del mercato. Dagli un consiglio, dal tuo punto di vista. Guardando indietro: un suggerimento ai più giovani, ora, che vogliono fare questo mestiere.
Qualsiasi cosa facciate… fotografo, ciabattino, panettiere, sarto… qualsiasi cosa facciate, fatela con amore o non fatela affatto. Scoprite cosa volete fare, cosa amate fare. Se amate ciò che fate troverete qualcosa da mangiare e quando sarete stanchi troverete un pavimento sul quale dormire. E sarete felici, e vi sveglierete desiderosi di correre a fare la cosa che volete fare. Sarete sorpresi quando a un certo punto vi diranno: “posso comprare quello che hai fatto? posso darti del denaro per questo?” È così semplice: è davvero così semplice, perché se finirete a fare qualcosa allo scopo di farci del denaro, sarete fottuti, perché lavorerete su qualcosa nel modo in cui qualcun altro vorrà che lavoriate. Se invece fate qualcosa che amate veramente, e io lo so con assoluta certezza, rimarrà per sempre. Non importa ciò che è: potrebbe essere un disegno, o qualcosa che scriverete… qualsiasi cosa.
Certo, se volete fare i fotografi, è dura a causa di tutti gli infiniti mutamenti in corso: io stesso trovo difficile sopravvivere con la fotografia con tutti i furti che avvengono in internet e le grosse agenzie come Getty che radono al suolo quelle più piccole. Io adoro scrivere storie sulle fotografie, perché ognuna di esse ha una storia, quindi dovremmo scrivere la storia delle fotografie che amiamo. Quando spedirò le mie stampe artistiche, ogni stampa che venderò avrà una sorpresa: ci sarà un testo che racconta la storia della foto. Quindi… in un mondo in cui internet ruba capolavori… sapete che i miei files sono stati rubati in internet? Trovo foto mie che ho perso e che sono su internet, fantastico! Di conseguenza, come fotografo, visto che ci sono agenzie che vendono le foto per un dollaro… o le regalano… che si fa? Su e-bay ho trovato una mia foto che usavo in una rubrica di una rivista. Risale al 1971. È in vendita a quasi novanta Euro: è un qualche francese disonesto che la sta vendendo illegalmente. E io me la sono scaricata e l’ho messa su facebook, perché avevo un bell’aspetto, ero innamorato, e Barbara, la mia prima moglie, mi aveva scattato quella foto in Italia. Quindi, in un mondo che è totalmente impazzito e ruba l’arte, se pensate a questo smetterete immediatamente. Ma non potete smettere!
Io per un po’ ho amato Photoshop, e amavo scansionare le mie foto… le ho scansionate, le ho lavorate, stavo in piedi fino alle tre o le quattro del mattino, sapete come succede… e poi arrivò il digitale. Mia moglie mi comprò una Canon digitale nel 2003, spendendo ottomila dollari: “ma sei diventata matta?” – però mi toccava usarla, quindi… Scattai delle foto a Kevin Costner, quel giorno, e non tornai mai più alla pellicola. Appena iniziai ad adoperare la digitale persi l’amore che avevo per le scansioni delle mie pellicole e il lavoro che facevo in Photoshop.
Ma non importa cosa… qualsiasi cosa che amate fare, funzionerà. Pensate, ho quattro foto mie nel box commemorativo di “Led Zeppelin IV” che uscirà a ottobre o novembre. Mi hanno pagato, per qualcosa che ho scansionato per me stesso quindici anni fa! Ora farò le riproduzioni a stampa di quelle foto, perché saranno nel box dei Led Zeppelin. Quindi… qualsiasi cosa amiate alla fine vi ripagherà… riuscite a immaginare quante foto dei Led Zeppelin ci sono là fuori? Riuscite a immaginare perché hanno scelto proprio quattro delle mie?
Ottima domanda. Penso che abbia una risposta. E penso che tu l’abbia data. Grazie!
veramente un ottima intervista, questo tipo parla veramente bene e scrive ancora meglio complimenti
Grazie mille Louis!
Grazie.
Una bellissima intervista di uno spaccato di 40 anni di musica rock che si intreccia con la vita di questo personaggio – Armando Gallo – che insegue, e non smette di inseguire, i sogni di un giovane innamorato del suo lavoro quasi volesse presagire una volontà superiore a testimoniare quella che sarebbe stata la sua lunga esperienza di protagonista dietro e davanti le quinte di un palco che non è solo quello delle band più famose del mondo.
Un grazie di cuore a Marco e ad Armando
Hai centrato perfettamente lo spirito dell’intervista, credo. Grazie!
‘Che la forza’ sia sempre con questo genere di persone, che hanno Storie con la S maiuscola da raccontare! Bravo Marco, una vera intervista, come essere lì con voi due…
Grazie di cuore!