Un racconto di strada verso il 2016

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Scrivere un post quando è passato molto tempo dall’ultimo è un problema: si tende a perdere il filo e proprio per questo a rimandare a oltranza. Il problema, in pratica, peggiora se stesso. Il 2015 è stato probabilmente l’anno in cui ho scritto meno in assoluto su queste pagine, per diverse ragioni. Il tempo principalmente, ma non solo; ho voluto e dovuto prendermi una relativa pausa perché altre cose reclamavano attenzione, e non amo fare qualcosa senza essere del tutto presente. Questo post racconta essenzialmente dove sia finito il mio tempo.

A Correggio finiscono i 70.

Scontenterò molti, ma non parlerò né di colore, né di Photoshop. Inoltre, questo post è insopportabilmente lungo – probabilmente troppo per chiunque. Infine, la prima immagine che  propongo, di per sé senza alcun valore, è sibillina. Ma questa volta la storia da raccontare è abbastanza articolata.

Molti conoscono il mio passato musicale, soprattutto nel ruolo di produttore indipendente. Ciò che ho fatto raramente ha avuto grande diffusione, ma è stato coerente nel tentativo di realizzare qualcosa di onesto, a prescindere dal genere: l’etica m’interessa più della visibilità. Questo lavoro continua tuttora, ma nel mese di aprile ho deciso di ridurre radicalmente l’estensione del mio studio, perché non ha senso perpetuare un passato ormai quasi finito. È quasi finito per l’obsolescenza di attrezzature che non mi sento motivato a rinnovare, per il desiderio di non continuare all’infinito a ripropormi in uno schema lavorativo statico, ma soprattutto per la pietosa situazione in cui diversi ambiti musicali si sono infrattati senza speranza di riemergere.

Si fa un gran parlare delle immagini troppo artefatte, con polemiche a corrente alternata sull’utilizzo di Photoshop. In realtà, le immagini che vediamo sono quasi oneste se confrontate con la media delle produzioni musicali. Ci sono fulgide eccezioni, ma sono essenzialmente stufo di produrre lavori che non sono mai stati realmente suonati, cantati e in generale eseguiti – anche se chi ascolta crede di sì. Questo per me significa: imbrogliare e barare, ed è quello che i musicisti troppo spesso stanno facendo. Più lo fanno, più la mia tolleranza si assottiglia.

In molti casi non è più musica: sono frasi composte una nota alla volta, prendendo frammenti lunghi a volte due o tre sole note da registrazioni distanti talvolta interi mesi; le note intonate una per una anche cinque o sei volte in maniera diversa – a causa dei ripensamenti del produttore. Il risultato è una schizofrenica babele di suoni che alle mie orecchie non hanno alcuna ragione di esistere, anche se possono apparire attraenti per la loro levigatezza. Non voglio dilungarmi, ma chi fosse interessato può leggere questo lucidissimo articolo, che mi sento di sottoscrivere parola per parola.

Per questo motivo ho deciso non tanto di smettere, quanto di diversificare la mia attività: la musica, oggi, coincide sempre di più con la ricerca di una gelida perfezione formale. Questo non fa per me: sono affezionato alle stanze, al loro suono quando qualcuno ci suona davvero dentro, perfino agli errori di esecuzione. Per questo qualche mese fa ho deciso di ridurre lo spazio molto ampio dedicato alla ripresa nel mio studio in favore di altre soluzioni che risultano più vicine a ciò che sento di voler fare in questo momento.

La decisione era nell’aria da tempo e ha avuto varie ramificazioni, compreso il mio cambio di residenza. Se dovessi indicare una data per la svolta direi che tutto si è mosso in aprile – il mese in cui ho definitivamente deciso in che direzione sarei andato. La direzione è semplice da definire, con una sola parola: è la mia.

Materiale Resistente 2015

La fotografia con la quale ho aperto l’articolo è legata a questo, per coincidenza. Era il 25 aprile: un sabato uggioso che mi salutò con un discreto mal di testa al risveglio. Avevo pianificato di recarmi a Correggio, quel giorno, ma ero stato sul punto di desistere: volevo partecipare a un evento chiamato “Materiale Resistente”. Per dirla in poche parole, un concerto per il settantesimo anniversario della liberazione, in uno dei luoghi più significativi d’Italia in cui ricordare questo avvenimento. Il segnale stradale della prima fotografia rappresenta, naturalmente, la cessazione del limite di velocità di 70 km/h, ma mi piace leggerlo come “fine dei 70”: ovvero dei 70 anni trascorsi da quel 25 aprile 1945 che fu il giorno della liberazione dell’Italia.

Avevo sentito pochi giorni prima Massimo Zamboni (CCCP Fedeli alla linea/CSI Consorzio Suonatori Indipendenti), che avrebbe suonato quel giorno con i post-CSI, il gruppo tornato assieme negli ultimi anni senza Giovanni Lindo Ferretti. Avevo conosciuto Massimo a Verona nel 2010  in occasione della presentazione di un suo album, anche grazie al fatto che nella sua band militava Cristiano Roversi, un poliedrico bassista mantovano che avevo registrato molti anni prima con i suoi Moongarden. Lo avevo contattato poco tempo dopo chiedendo e ottenendo il permesso di rivisitare la sua “Sorella sconfitta” in occasione della presentazione a Roma del mio libro “La musica nel silenzio”. La eseguii quella sera, in una libreria di Trastevere, con il solo pianoforte e la voce. Tempo dopo, Massimo mi chiamò a sorpresa per avvertirmi che avrebbe fatto un concerto assieme ad Angela Baraldi poco distante da casa mia. E fu così che per la prima volta, in Val di Ledro, fotografai uno dei suoi concerti: dal pubblico, per affetto e divertimento personale.

Per affetto e divertimento, di nuovo, scesi quel giorno a Correggio. Mentre guidavo ero stanco, ascoltavo il mio mal di testa e mi chiedevo se ne sarebbe valsa la pena. Entrando in città, notai il segnale stradale con la coda dell’occhio, in maniera quasi subliminale, ma fu una suggestione abbastanza forte da farmi girare l’auto e tornare indietro, per controllare di averlo visto bene. “Fine dei 70”, a Correggio: bene, pensai, sono nel posto giusto. La giornata iniziò a volgere al meglio. Era ora passata, tra l’altro, che alcune cose decidessero di finire; anche per me.

Quando Massimo arrivò, lo salutai e mi fece avere un pass come fotografo.  Nella specie di trincea posta tra le transenne e il palco, assieme a diversi altri fotografi e videomaker armati delle loro attrezzature, conobbi Martina Ridondelli, una fotografa pisana. Una fotografa vera, rispetto a me che sono un non-fotografo. Legammo subito, grazie a evidenti affinità musicali, e stabilimmo una specie di mutuo sostegno fatto di scambi di obiettivi, guardia reciproca alle attrezzature nell’arco delle otto ore dell’evento, tentativi malriusciti di coprirci dalla pioggia battente che scese sul set dei Giardini di Mirò.

Giardini di Mirò (quasi Blade Runner)

Fu così che, dopo mezzanotte, coperto di fango e in condizioni sub-umane, risalii in auto e puntai verso Nord portando con me una collezione di fotografie come non ne avevo scattate da tempo, e qualche chiacchiera con personaggi che non avevo avuto modo d’incontrare prima. Tra questi un certo Gianni Maroccolo, con il quale ridemmo di come la sua ditta Sonica, anni prima, avesse scelto inconsapevolmente lo stesso nome del mio primissimo studio di registrazione portando anche a qualche confusione subito risolta.

I post-CSI suonarono a Riva del Garda qualche settimana dopo e di nuovo andai a trovarli. Poi venne settembre e da qualche parte iniziarono a levarsi voci che il loro concerto di Modena in programma per il giorno 3 sarebbe stato l’ultimo. Chiesi conferma a Massimo via mail, e la sua risposta mi convinse a saltare in macchina senza preavviso. Mi trovavo sul prato davanti al gigantesco palco preparato per l’evento, quando alla spicciolata arrivarono tutti i membri del gruppo. Massimo si fermò a chiacchierare e notò la mia solita borsa con fotocamera a corredo. Non ci fu alcun pass, quella sera – “vieni dentro con noi”. Mi ritrovai così nella quasi imbarazzante situazione di essere l’unico fotografo tra la transenna e il palco, per la maggior parte del concerto.

Giorgio Canali a Modena, durante l'ultimo concerto dei post-CSI

La cosa iniziava a divertirmi: fotografare un gruppo più volte presenta un vantaggio – se si conosce il repertorio, si è in grado di prevedere più o meno cosa succederà, anche se non c’è un copione scritto nella pietra. La prima volta si coglie l’attimo un po’ per fortuna e per occhio, la seconda si consolida, la terza si va sul sicuro. Tornai a casa con quello che era certamente il migliore set che avessi realizzato fino a quel momento. Tra le varie fotografie, quella qui sopra riassume per me tutta la potenza e la rabbia di un gruppo irrinunciabile come i post-CSI.

Nel frattempo c’era stato un altro evento, che prova come le strade e i percorsi s’incrocino talvolta in maniera misteriosa. Avevo saputo che il 2 agosto gli Estra avrebbero suonato a Treviso, loro città natale, ma purtroppo ero impegnato. Mi dispiaceva: sarebbe stato il loro ultimo concerto e non li avevo mai visti dal vivo, nonostante fossero stati parte integrante della colonna sonora dei miei inquieti anni ’90. Era dunque l’ultima occasione. Un paio di giorni dopo Martina m’informò che il concerto sarebbe stato il 9 agosto: spostato? Sì. Disse anche che sarebbe salita volentieri per vederli. Decidemmo di andarci assieme: la recuperai alla stazione di Verona e puntammo a est.

Recuperammo due pass, non senza qualche difficoltà. Per regolamento, ci fecero uscire dalle transenne dopo i primi tre brani – e fu una fortuna: lo spazio non era enorme e si erano accalcati almeno venti fotografi che scattavano, inevitabilmente, tutti le stesse fotografie. Decidemmo di buttarci nella fossa dei leoni, dove le cose erano assai più interessanti: ci facemmo strada tra il pubblico, e avanti con la festa.

Giulio Casale con gli Estra, nella foto più sbagliata della storia

Il giorno dopo, selezionando le foto, mi soffermai a lungo su una in particolare. Mi diceva molto, ma conteneva almeno quattro errori clamorosi. Soprattutto, la classica testa rovinaconcerti si era piazzata davanti all’obiettivo proprio nel momento in cui avevo fotografato una tra le pose più belle prese da Giulio Casale, il cantante, nel corso di tutto il concerto. Inoltre, il braccio di Giulio nascondeva il volto di Abe Salvadori, chitarrista; un cellulare inopportuno appariva a sinistra; una mano in primo piano. Fotografia impresentabile: sospirai un Cmd-Backspace in Bridge, e addio – un’immagine potenzialmente buona finì nel cestino.

Quando misi insieme la sequenza da pubblicare, questa scelta mi bruciava. Riaprii il cestino e riesaminai la fotografia. Era potente, a modo suo. Diceva qualcosa di molto simile a ciò che avevo sentito quella sera. In barba a ogni logica, la rimisi tra le prescelte.

Come andarono le cose, non so, ma Giulio, mai incontrato in vita mia, prese proprio quella fotografia e ne fece la copertina della pagina del gruppo su Facebook. Ero sconcertato… lo aveva già fatto Ginevra Di Marco con uno degli scatti di Riva del Garda, ma non capivo perché questa specifica fotografia fosse stata scelta tra altre che mi apparivano di gran lunga migliori. O forse sì, in realtà, lo capivo. Dopo qualche giorno realizzai che forse potevo mettermi in contatto con Giulio: Lodovico Saccol è un ottimo amico di Treviso, grande compositore di canzoni per bambini. Gli chiesi se lo conosceva: no, ma conosceva sua sorella e forse potevo parlare con lei. Così scrissi a Silvia, che mi passò una mail alla quale spedii un messaggio di ringraziamento con poche frasi, legate soprattutto al senso di quella foto e di quella serata, per me estremamente particolare. Per le strane coincidenze della vita, ero andato a dormire alle tre di mattina dopo il concerto; al confuso risveglio che seguì poche ore dopo, scoprii che una parte del mio mondo era cambiata radicalmente. Sapevo che sarebbe accaduto, ma la vita scelse proprio quella notte come spartiacque. Tutto divenne quindi particolarmente significativo. La mia mail non ebbe risposta per un po’: poi Giulio mi scrisse, scusandosi del ritardo e dicendo che sarebbe stato bello incontrarsi. Lui stava a Milano, non a Treviso e chissà, prima o poi forse…

A questo punto devo cambiare angolo di ripresa. Parte della mia attività nel campo della post-produzione passa per eventi e fiere. Alla fine di ottobre, Milano ospitava il Photoshow ed EIZO, con cui collaboro, mi aveva chiesto di essere presente al loro stand. Verso la sera di sabato 24 ottobre stavo chiacchierando con Antonio Manta, ben noto stampatore: discutevamo di carta, inchiostri e dintorni quando per caso mi accorsi che un tizio con i lunghi capelli biondi era in piedi davanti al mio stand e chiedeva qualcosa a qualcuno che indicò me. Mi bloccai su due piedi perché non mi era chiaro il motivo per cui il cantante degli Estra si trovasse lì. Chiesi scusa ad Antonio ed entrai nel momento esatto in cui Giulio si girò: gli  presentai probabilmente la faccia più strana che avevo avuto addosso da tempo. Mi disse, semplicemente, che era passato a trovarmi, avendo saputo che ero da quelle parti.

"Resto appeso nei pomeriggi arreso."

Finimmo a bere qualcosa assieme a due amiche, parlando di questo e di quello, di musica, d’immagini, del mondo. Ci prendemmo anche lo sfizio di visitare il curioso set allestito da Canon: un complesso gioco di specchi con una finta facciata di edificio messa in modo che fosse possibile fotografare qualcuno dando l’illusione che si trovasse sul cornicione. Ci conoscevamo da pochi minuti, ma non resistei: “facciamo l’uomo coi tagli?” Il riferimento era al ritornello della storica canzone degli Estra: “resto appeso nei pomeriggi arreso.” Ci vollero pochi secondi perché Giulio si togliesse la giacca e si sdraiasse sulla scena, permettendomi di catturare questa immagine. Non so perché, ma è la musica – sempre lei – che s’infila ovunque, ispirando una fotografia. Che, magari, chissà, un giorno potrebbe ispirare un’altra canzone a qualcuno. La verità è che la musica è la peggiore stalker del pianeta. Forse per questo la odio un po’?

Brian Eno affermava di essere un non-musicista: allo stesso modo io mi sento un non-fotografo. Quindi, non fotografo mai su commissione: se lo facessi, mancherei di rispetto ai professionisti, millantando ciò che non sono. Il modo migliore che conosco per esprimere il concetto è questo: io fotografo da tutta la vita, ma non sono un fotografo. Inoltre, lo ammetto, desidero restare staccato da quella categoria di fotoamatori che ultimamente sembra partecipare a ogni possibile workshop, soprattutto quando ci sono modelle più o meno discinte da riprendere. Nulla di male, ma ho potuto farmi un’idea di come in questo ambiente “portare a casa la foto” sia molto più importante, spesso, che imparare a farla davvero. Io non funziono in questo modo: finché scatto per mia volontà, da solo, commettendo tutti gli errori possibili, procedendo accidentalmente e spesso sbattendo contro muri di vario genere, resto immune da questa frenesia di avere “lo scatto” a tutti i costi. Se premo il pulsante, è per amore e solo per amore. Non è un business, non soddisfo il mio ego.

Che c’entra tutto questo? – si chiederà qualcuno. C’entra, perché nel momento esatto in cui ho deciso di chiudere o quasi con buona parte del mondo musicale, alcune delle componenti più sane della musica che ha accompagnato la mia strada per circa un quarto di secolo mi hanno bussato alla porta. In forma di cantanti entrati al Photoshow, ma non solo.

Angela Baraldi

Il concerto dei post-CSI a Modena cadde quasi un mese dopo quello degli Estra e fu, così si dice, un altro ultimo concerto, un last waltz. Le mie fotografie non mi piacciono quasi mai, nel senso che penso sempre che avrei potuto fare meglio, e sono implacabile nel tagliargli le gambe quando ritengo che non esprimano abbastanza. Scatto poco ma cerco di tenere tutto ciò che ha un senso: i set da tremila scatti a raffica non fanno per me perché voglio essere io, e solo io, a decidere quando si debba aprire la tendina. E, naturalmente, a sbagliare nell’aprirla. Lo stesso sentimento di “avrei potuto fare meglio” lo ebbi nei confronti del set modenese: feci una selezione, la inviai ai musicisti e rimase lì – anche se a loro piacque e diventò uno dei progetti più visitati tra i pochissimi che ho pubblicato su Behance. Ma qualcosa si era mosso, indipendentemente da me. Gianni Maroccolo, in particolare, mi scrisse un paio di giorni dopo il concerto, rimproverandomi bonariamente di non essere passato a salutarli a palco spento. Non era vero, in realtà: non lo avevo trovato. Avevo salutato Massimo e qualcun altro, poi me n’ero andato. La vera domanda però era – come mai Gianni si ricordava di me?

Devo spiegare una faccenda non facile, al punto che ci ho scritto sopra un intero libro qualche anno fa. Per alcune persone la musica è una sorta di sottofondo gradevole, una specie di tappezzeria della vita. Per me è diverso, anzi mi disturba trovare musica ovunque, anche dove non dovrebbe esserci. L’ho sentita uscire da atroci altoparlanti a tromba a più di 3.000 metri di quota, su una pista da sci: a che serve? La musica come la fotografia, come tutto ciò che può rappresentare cibo per il pensiero e per l’anima, dovrebbe accadere in luoghi ben precisi. Non può stare in non-luoghi, non può venire imposta senza possibilità di selezione né di spegnimento. Per me la musica risuona, è una porta (anzi, la porta) di accesso principale al silenzio dei pensieri, è uno stimolo, e penso di avere imparato di più da certi brani che da anni di studi formali. Il mio fotografare da non-fotografo un gruppo come gli Estra, i Rossofuoco o i post-CSI ha un unico senso – quello di restituire in minima misura ciò che loro inconsapevolmente mi hanno dato. È un grazie, nient’altro, passato in cambio di qualcosa che mi ha tenuto in piedi, indirizzato, ispirato e spesso confortato anche nei momenti più difficili.

Il problema, se così lo possiamo chiamare, è che non sono fisiologicamente in grado di concentrarmi su una cosa sola. Se mi occupo di colore, non lo faccio in maniera fine a se stessa: il colore mi evoca immagini; le immagini mi evocano musica; la musica mi evoca a sua volta immagini; le immagini, colore. Tutto smuove parole, punta alla poesia, a volte addirittura alla mia ormai antica formazione scientifica. È un ciclo da cui non posso uscire, perché tutte queste cose, per me, sono una sola. Sono stato definito “intellettuale” per questo: ma rigetto l’accusa. Sono semplicemente curioso, vivo di collegamenti che possono sembrare strani ma che funzionano per me. Né faccio ciò che decido di fare allo scopo di mostrarlo a tutti i costi: se è un lavoro, lo faccio perché è giusto farlo; se non è un lavoro, lo faccio perché è giusto farlo. Giusto per il mio personale metro, beninteso.

Ma ciò che deve accadere, accade – per citare proprio i CSI. Quest’anno è caduto il 25° anniversario dalla pubblicazione di “Epica Etica Etnica Pathos”, l’ultimo album dei CCCP Fedeli alla linea che segnò la fine del gruppo. Quella fine fu un inizio perché sancì di fatto la nascita dei CSI. Nell’album comparivano Gianni Maroccolo e Giorgio Canali, nonché Francesco Magnelli, tutti poi confluiti nei CSI e nelle ramificazioni successive del progetto. Impossibile per me dire quanto quell’album abbia cambiato il mio modo di vedere la musica e mi abbia ripulito da alcuni orpelli eccessivi e troppo formali di parte del rock progressivo britannico che ascoltavo all’epoca, pur sapendo che quell’era si era conclusa come minimo quindici anni prima. Fu l’album che più di ogni altro mi fece recuperare il senso dirompente, critico e sociale che la musica dovrebbe avere. Fu una pietra miliare. Fu di più.

Nel maggio di quest’anno l’album è stato proposto dal vivo per la prima volta integralmente a Firenze, ma non potei assistere al concerto. Una data era annunciata per Roma, il 27 novembre. Che, coincidenza, era l’unico giorno totalmente libero da impegni nella mia agenda nell’arco di tre mesi: niente scuola, niente corsi, niente lavori, niente muratori da gestire nella ristrutturazione dello studio, niente di niente. Un segno?

Pochi giorni prima avevo scambiato qualche mail con Gianni Maroccolo, che stava iniziando a progettare il tour del suo ultimo lavoro, pubblicato nel 2013: un album eccezionale realizzato assieme al compianto Claudio Rocchi e intitolato “vdb23 / Nulla è andato perso”. Avevo proposto a Gianni di provare a sondare il terreno per possibili concerti nella mia regione ed egli mi aveva messo in contatto con il suo manager. Quando accennai alla possibilità che scendessi a Roma per il concerto che ormai tutti chiamavano EEEP, dalle iniziali dell’album, accadde l’impensabile. Stavo in una classe buia, due giorni prima del concerto, ad assistere una ventina di studenti che sudavano su un esercizio preparatorio a un esame di Photoshop. La mail trillò sul mio telefono; non essendo occupato a suggerire qualcosa a qualcuno, la lessi in tempo reale. Mi si diceva che se fossi andato al concerto avrei trovato ad attendermi un pass come fotografo, apparentemente assai difficile da ottenere. E già che c’ero, mi andava di discutere la possibilità di fotografare Gianni e il suo gruppo durante la preparazione del prossimo spettacolo, in dicembre?

Ci sono momenti in cui eventi distantissimi si confondono e si comprimono in una specie di unico magma. La prima cosa che pensai fu che avevo visto Gianni dal vivo per la prima volta molti, troppi anni prima, a Pergine Valsugana, durante il tour di “Litfiba 3”, l’album che considero una delle punte di diamante della musica italiana di quegli anni. All’epoca i Litfiba erano un gruppo fenomenale, vicini all’enorme successo che avrebbero avuto dopo, ma non ancora arrivati in vetta. Suonavano come forse nessun altro gruppo italiano sapeva suonare. Ricordo benissimo come aprirono: con “Peste”, il capolavoro che chiudeva il loro terzo album. Gianni suonava note che non ti saresti aspettato e stava in piedi apparentemente distaccato a fianco del suo amplificatore, ma non era difficile per chiunque capisse qualcosa di musica accorgersi che il suo contributo andava molto al di là del sostegno ritmico/armonico al brano. Era una specie di motore immobile del sound complessivo e come musicista incuteva un sacro timore. Ed ecco che, venticinque anni abbondanti dopo, lo stesso bassista, via manager, mi proponeva di andare a Roma e poi scendere in Emilia Romagna un paio di giorni per vedere come andavano le cose con il nuovo progetto e scattare qualche foto. Ebbi, lo ammetto, un leggero capogiro.

Quanto strana può essere la vita? Non ho risposte, sinceramente. Anche perché questo tassello, da solo, ha un valore relativo. Inserito nel disegno più grande del mio imprevedibile percorso, spesso casuale, spesso neppure cercato, ne ha però uno immenso, come tutti gli altri tasselli.

Ma così vanno le cose, così devono andare. Feci la mia corsa in auto verso la Sala Sinopoli al Parco della Musica di Roma, quel venerdì, evitando caparbiamente di ascoltare qualsiasi cosa collegabile a “Epica Etica Etnica Pathos”, che avrei dovuto fotografare sul palco. Le fotografie della copertina e del libretto dell’album originale erano state fatte da Luigi Ghirri: era una situazione totalmente diversa, naturalmente, ma, ecco, se mai mi trovassi a fare qualcosa di facile, nella vita, sarei un filo più rilassato. Anche più annoiato, però.

Antonio Aiazzi prova prima del concerto di EEEP

Di quel concerto potrei scrivere per ore: del backstage, delle chiacchiere, degli incontri (Danilo Fatur, per la prima volta; Antonio Aiazzi; e altri). Della mia silenziosa sorpresa al venire riconosciuto da artisti incontrati una sola volta a Correggio sette mesi prima. Forse potrei scrivere dell’atmosfera più ancora che della musica, a due settimane dall’abominio del Bataclan di Parigi, in una situazione troppo simile per poter passare inosservata. Non lo farò: ho un set d’immagini, il quarto con i post-CSI e dintorni nell’arco di pochi mesi, tanto basta. Temo che il giorno che verrà scritta la loro biografia definitiva, qualcuno dirà che avevano tentato molte volte di togliersi Marco Olivotto dai piedi, ma era difficile perché arrivava ai concerti prima di loro e a quel punto la frittata era fatta. Più o meno, è andata davvero così. Pubblico qui una sola fotografia del concerto alla quale sono molto affezionato: perché è una visione d’insieme, perché contiene più o meno tutto ciò che sono in grado di fare con il colore, perché davanti al microfono c’è Max Collini e perché, come Massimo Zamboni mi ha fatto notare:

…lo striscione sullo sfondo splende come non mai. Come hai fatto a farci stare tutti dentro le foto?

Epica Etica Etnica Pathos

Massimo, vorrei saperlo anch’io. Posso dire che il mio fedele 50mm f1,4 ha fatto molto (via gli zoom, in certi casi, per carità), ma in ultima analisi non lo so.

A cavallo del ponte dell’Immacolata, la discesa in Emilia Romagna per “vdb23 / Nulla è andato perso”. Per questo set mi serviva un assistente, e la scelta è caduta su una mia studentessa dell’Alta Formazione Grafica di Trento, Martina Pedrotti. Sì, un’altra Martina. Un giorno di fotografie in sala prove più un giorno di sessione assai informale, con cinque musicisti eroici messi a congelare in mezzo alla campagna. Avevamo deciso di fare dei ritratti ambientati, senza preparazione: dovevano essere fotografie vere, per una volta, da non ritoccare, che trasmettessero l’emozione di cinque signori che si ritrovano e preparano un progetto che minaccia di diventare piuttosto importante, vista la qualità dei contenuti e delle musiche. Lascio all’ufficio stampa il compito di diffondere le immagini, che sono mie ma non sono mie, perché sono soprattutto del gruppo. Ma una, inadatta alla pubblicità, la voglio pubblicare. Lo ha fatto Gianni, quindi posso farlo anch’io – ed è una delle mie preferite perché coglie esattamente lo spirito di ciò che “vdb23 / Nulla è andato perso” sarà: uno sguardo sulla vita, sorpreso, leggero e perfino ironico anche se talvolta profondamente doloroso. Che è come io vorrei che fosse ogni (mio) sguardo.

Gianni Maroccolo

Perché ho scattato una fotografia così? Ci provo, quando il soggetto è un po’teso e si mette in posa. Di solito faccio una battuta, dico qualcosa che non c’entra, e scatto una frazione di secondo prima dell’arrivo dell’espressione in risposta, sperando che qualcosa di spontaneo esca. Questa è una foto ricordo, alla fine, niente più. Ma è un gran ricordo. Così come tutti i due giorni passati ad ascoltare, mangiare, ridere, raccontare, fumare e vivere con Gianni, Antonio Aiazzi, Andrea Chimenti, Simone Filippi, Beppe Brotto. Da rivedere a febbraio, e oltre, su un palco probabilmente assai vicino a casa vostra.

Ho chiuso questo lungo ciclo pochi giorni fa, scendendo all’impazzata a Milano per il nuovo spettacolo di Giulio Casale: “Abbiamo tempo”. Con lui ci sono stati altri due incroci: uno in provincia di Vicenza, uno vicino a Belluno, al vernissage di una mostra di pittura organizzata da una comune amica. Ma ora, il nuovo capitolo: “Abbiamo tempo” è teatro, oltre che musica; forse, per lui, più teatro che musica. Certamente, è parola: ed è da vedere e ascoltare, a ogni costo, per chiunque cerchi una finestra sul nostro tempo, aperta da un uomo da solo sul palco che può permettersi di cantare:

Mi sono preso due o tre soddisfazioni
non cedendo a lusinghe tipo Grandi Occasioni
e ho dato fuoco ad ogni mia abitazione
senza nemmeno usare un falso nome

Per come lo conosco, è davvero così. In qualche modo, credo e spero di poter dire più o meno la stessa cosa: è la stessa coerenza che ho cercato di tenere nelle mie scelte lavorative e che mi ha spinto a fare un passo fuori da alcune situazioni mettendoci la faccia e senza nascondermi, anche quando era impopolare e doloroso. È anche ciò che spero di poter fare ancora in futuro, finché ne avrò il tempo.

Abbiamo tempo? Abbiamo tempo.

La situazione, a ben guardare, è questa: sei da solo e hai uno strumento di espressione al tuo fianco – chitarra, fotocamera o Photoshop, è irrilevante. Hai, naturalmente, una voce. Il tuo sedile è una semplice panchina di legno. Alle spalle, i classici scheletri nell’armadio (i tuoi, quelli altrui), ahimè visibili a chiunque. E una luce infernale che incombe e non promette nulla di buono. Che puoi dire?

Difficile. Il passaggio di fine anno è una semplice formalità, ma siamo abituati a pensare che con quella piccola cifra cambi qualcosa. Io non lo credo. Più passa il tempo, meno credo che il tempo esista, ma si sa, il carrozzone va in una certa direzione e siamo tutti un po’ conformisti, in fondo. Quindi dico qualcosa rubando, proprio a Giulio – che so che mi perdonerà – quella che ritengo una delle più belle frasi d’amore che ho trovato in una canzone da molti anni a questa parte:

Ma ti ricordi? Avevi un abito leggero:
quale vestito metterai ora che andiamo nel futuro?

Io credo di avere un’idea del vestito che metterò. Auguro anche a voi che leggete (in tre, al giro delle quasi-cinquemila parole) di averla. Vi do appuntamento nel 2016, il futuro, quel futuro, e parleremo di colore, di fotografia, di musica, e tutte queste saranno scuse, alla fine, per parlare di noi stessi, tra noi. Perché, agli dei piacendo,

Abbiamo tempo per dirla, una parola.
Abbiamo tutto il tempo
e proprio il tempo ci consola.

Buone feste e buon anno a tutti. Ci si rivede, ok?

15 commenti su “Un racconto di strada verso il 2016”

  1. Ciao Marco,
    mi è piaciuto molto il tuo articolo, anche perché i miei figli sono in una fase confusocaotica proprio per quanto riguarda la musica. Io mi accontento di fare fotografia, e non posso nemmeno disdegnare il termine “fotoamatore”, anche se non partecipo a workshop né scatto a raffica. Credo, come ammetti possa capitare, di commettere ancora troppi errori, ma va bene così, perché quando ho in mano la mia reflex e inquadro un paesaggio (amo molto ritratte i paesaggi), mi sento bene con me stesso.
    In attesa dei tuoi articoli sul colore, ma non solo, auguro anche a te un felice 2016

    1. Grazie Gianfranco, auguro altrettanto a te. “Fotoamatore” è una bellissima parola, in realtà: mi spiace solo vedere diverse persone – non tutti – scattare foto non loro, seguendo percorsi troppo codificati. Non sono mai stato un amante della pappa pronta, ecco, ma a quanto pare va abbastanza di moda. Nel mio minimo, nei miei corsi, cerco di dare il contrario: chissà che nel lungo periodo qualcosa non rimanga.
      Il rapporto figli/musica è interessante: mio figlio ha sette anni e adora (non senza un certo senso critico) Giulio Casale, ma non solo. Canta da cima a fondo “L’uomo coi tagli” e “Sei così semplice”, classica e richiesta colonna sonora dei nostri lunghi viaggi in auto. Ha chiesto anche di avere una fotografia di papà con Giorgio Canali, che ha un suo fascino perché “urla molto”, secondo lui. La verità è che assorbono tutto, talvolta senza che noi ce ne rendiamo conto. “Non mi piace ‘La febbre'”, mi ha detto una volta riferendosi proprio a un brano di Giulio, “anche se ha dentro una frase bellissima.” Che cosa puoi rispondere? Io lo lascio scavare, penso che sia la cosa migliore.
      Ancora auguri, e buon proseguimento!

    1. Grazie a te, Antonio – pensa che molto di tutto questo ruota attorno alla tua Firenze. Anzi, ci verrò presto. Sarebbe un’occasione…
      Un abbraccio!

  2. Ciao Marco, ho letto il tuo post tutto d’un fiato, mi ha regalato tante emozioni….
    Ho avuto il privilegio di cososcerti più di vent’anni fa, nei tuoi “inquieti anni novanta”, e da allora hai saputo rinnovarti più volte, sempre con sensibilità, coerenza ed intelligenza
    Complimenti, non e’ da tutti!

    1. Ho il sospetto che la nostra conoscenza risalga ai corridoi dell’università, triangolando il nome e le iniziali del cognome ;).
      Ti ringrazio – e trovo bello che in qualche modo le strade si intersechino ancora dopo tanti anni. Segno che qualcosa forse rimane nell’aria.
      Un caro saluto!

  3. Ciao Marco,

    mi permetto aggiungere che aspirerei a partecipare a uno dei tuo corsi, ma venendo dalla Svizzera italiana non è la cosa più semplice del mondo. Per il momento mi “accontento” di seguirti su teacher-in-a-box non disperando di poterlo fare dal vivo.
    I miei figli sono maggiorenni ed è un’età dove non si accontentano più di canticchiare un ritornello, ma vogliono diventare famosi, e questo è un problema…

  4. There’s a feeling I get when I look to the west, And my spirit is crying for leaving.

    Le strade sono fatte per incorciarsi ed incontrarsi. I colori per splendere o appannarsi. I giorni per assommarsi fino a sperdersi. Le pagine si girano e ricominciano altre storie. Anche a cinquant’anni. Forse soprattutto a cinquant’anni. Storie che ricominciano e si colorano diversamente.
    Chissà poi perché questo 2015 ha cambiato in modo così profondo tanti. O forse ha solo tirato le somme.
    E preparato altre pagine, altre strade, altra musica, altri colori. Per molti di più di quelli che si sono dichiarati in questa prrospettiva (neanche modificata nel suo landscape). Sipario, gente, che si va in scena di nuovo.

    Buon 2016, L.

  5. Beh ora forza un po il destino…gianni e giulio si conosceranno?e se sì vedi comunque se potrebbe nascere qualcosa…visti i postcsi e estra a Treviso in comune hanno già la fine di un gruppo oltre il fotografo ora…

    1. Si conoscono e ho già fatto da portatore di saluti tra l’uno e l’altro. Quanto alla nascita: non credo che dipenda tanto da una volontà o da un piano predefinito, quanto da circostanze spesso imperscrutabili. Se leggi la storia della collaborazione tra Gianni e Claudio Rocchi, ad esempio, è emblematica in questo senso. E in ultima analisi – ciò che deve accadere accade. O, a volte, ciò che non deve accadere, accade :).

  6. premetto che non ci conosciamo, ma ho avuto il piacere di conoscere e apprezzare il tuo lavoro sulla correzione colore grazie all’amico “luca negri ” di castagnaro e ho poi scoperto anche la tua passione per la musica.
    Dopo la lettura di questo post vorrei indicarti un’ altra persona “fuori dagli schemi” ma appassionata alle “regole” si chiama Franco Guidetti è un chitarrista particolare appassionato di palladio, delle ville venete e delle chitarre strane. Se hai tempo dai un’occhiata in internet alle sue cose.
    Un cordiale saluto
    stefano benà

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