Un esperimento mentale

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Questo articolo illustra con un esempio fittizio due possibili approcci alla post-produzione di una singola immagine. L’esempio è costruito ad arte, nello spirito di Albert Einstein, il quale utilizzava spesso quello che chiamava gedankenexperiment, ovvero esperimento mentale. Si tratta di un esperimento che non viene realmente eseguito ma solo immaginato, allo scopo di verificare una teoria e metterne in evidenza alcune possibili conseguenze.

Nell’articolo precedente ho proposto un’immagine provocatoria, derivante dalla distruzione dei dati di una fotografia della Torre di Pisa. Lo scopo era preparare la strada a questa discussione, per mostrare una possibile linea di lettura delle scelte (o non-scelte) di post-produzione e valutarne – se mai è possibile – l’impatto su chi guarda: lo spettatore della fotografia. Nessuna pretesa di scientificità è possibile, ma forse la linea di pensiero potrà risultare utile a qualcuno. Anche in negativo, perché no?

Partirò da una fotografia molto semplice ed effettuerò due post-produzioni di segno diametralmente opposto, cercando di seguire una linea di pensiero specifica per ciascuna di esse. Non mi aspetto che una risulti migliore dell’altra secondo qualche criterio che andrebbe comunque stabilito a priori, ma vorrei immaginare un contesto in cui entrambe siano giustificabili, così come gli approcci che le producono. Propongo quindi uno scenario ipotetico ma plausibile. Soprattutto, uno scenario in cui scelte diverse di post-produzione hanno delle motivazioni a monte.

Un albero, una fotocamera, due visioni

Due fotografi, che chiameremo Andrea e Bruno (senza alcun riferimento alla realtà), percorrono un viottolo di campagna diretti a un ciliegio noto per l’eccezionale fioritura che sviluppa in primavera. Si sono conosciuti in un circolo fotografico non molto tempo prima, e Andrea ha proposto l’escursione. Bruno ha accettato, anche se è legato al luogo da un ricordo terribile: una persona a lui molto cara si è tolta la vita proprio sotto quell’albero, pochi mesi prima. Andrea non è al corrente di questo fatto.

Il dolore irrisolto di Bruno gli causa un senso di repulsione e attrazione allo stesso tempo. Egli si sforza di accettarlo, ma non riesce a superarlo; per questo non condivide quasi con nessuno quel dettaglio della sua vita. La sua percezione del luogo è distorta rispetto a quella di chi lo visita senza alcun problema particolare.

All’arrivo, Andrea scopre con disappunto che la sua fotocamera non funziona. È deluso, perché ha fatto un bel po’ di strada ma non potrà realizzare il suo progetto. Bruno al ritorno fa una proposta: “Sono disposto a passarti i miei RAW, così almeno avrai un ricordo di questa passeggiata. Fai la tua post-produzione, così conserverai qualche fotografia di oggi.” Andrea accetta. Il risultato è che i due, imprevedibilmente, si trovano a post-produrre le stesse fotografie con sentimenti totalmente diversi.

Le mosse di Andrea

Come promesso, Bruno invia un certo numero d’immagini RAW ad Andrea, che ne sceglie una. Aprendola in Camera Raw con tutti i parametri a zero e il bilanciamento del bianco come scattato ottiene questa versione.

Andrea è abbastanza ferrato in fatto di post-produzione: è un appassionato che da anni studia le tecniche più svariate. Sa valutare il colore numericamente, conosce la teoria dei colori noti e di recente ha sperimentato un interessante flusso di lavoro creato da Dan Margulis, chiamato PPW: Picture Postcard Workflow. Il PPW promette colori vivaci, transizioni tonali morbide e immagini di un certo peso, ed è particolarmente adatto alle fotografie di paesaggio. Lo si attua con pochi ma ragionati clic su un pannello per Photoshop disponibile gratuitamente.

Andrea valuta i colori noti della fotografia: sono da manuale, non c’è nulla di sbagliato; erba e cielo, in particolare, rientrano negli intervalli proposti dalla teoria. Tuttavia, non gli sembra che la fotografia esprima ciò che il luogo gli ha suggerito: il suo ricordo è quello di una natura rigogliosa e in piena esplosione, gioiosa e viva. Cinque anni prima, Andrea avrebbe aperto la regolazione Tonalità/saturazione per rendere più pieni i colori, ma oggi sa che questo sarebbe un errore eintuisce che saturare il verde del prato sarebbe deleterio: è il colore più intenso presente nell’immagine e occupa un’area cospicua. Saturarlo significherebbe metterlo in evidenza, e il prato finirebbe per rubare la scena al soggetto principale che è, naturalmente, l’albero. L’albero è inoltre costellato di fiori bianchi: se fossero rossi, creare un contrasto cromatico tra rosso e verde potrebbe avere senso, perché un verde intenso nell’erba farebbe risaltare maggiormente i fiori per contrasto simultaneo; in questo caso però no, perché la saturazione distrarrebbe da un’area importante e sostanzialmente neutra.

Il PPW sembra un’ipotesi migliore della semplice saturazione. Che elementi ci sono in questa scena? – si chiede Andrea. Essenzialmente cinque: l’albero, il prato, il cielo, le nuvole, lo sfondo. Il più importante è l’albero. Il secondo è il cielo, assieme alle nuvole: enfatizzandolo, si può creare interesse nella zona in alto a sinistra, che rappresenta il punto d’entrata dello sguardo quando l’immagine viene letta. La ben nota “zeta” che l’occhio percorre esplorando la fotografia non incrocia nulla di significativo fino a che, scendendo dall’angolo in alto a destra, incontra l’albero. Serve però qualcosa che inviti a entrare, anche perché il cielo, in alto a destra, è quasi uniformemente bianco: le nuvole non hanno struttura – o ne hanno così poca da non risultare interessanti, e ciò che è piatto non attira l’attenzione di chi guarda. Il prato non deve esplodere di colore: questa è l’unica richiesta forte che lo riguardi. Dello sfondo importa poco a chiunque.

La prima operazione che Andrea decide di fare è una fusione di canali in luminosità: sceglie di utilizzare la luminosità del canale del verde (G), per rendere l’erba più chiara. Questo però non scurisce l’azzurro del cielo, cosa che creerebbe un utile contrasto: quindi applica al livello realizzato con il canale del verde quello del rosso (R), in metodo di fusione Scurisci. Il resto della foto rimane sostanzialmente invariato. Una semplice curva di luminosità porta i punti di luce e di ombra ai loro valori nominali, per ottimizzare la gamma dinamica.

La luminosità di G e quella di R in Scurisci vengono applicate all’originale. L’immagine viene curvata.

Il risultato ha una distribuzione tonale che soddisfa Andrea, quindi il lavoro procede. Per tenere sotto controllo il verde utilizza una tecnica denominata Helmholtz-Kolrausch, che mette un guinzaglio ai colori non troppo saturi al fine di evitare che esplodano nella manovra finale del PPW, che è invariabilmente una saturazione. Il verde è abbastanza intenso, ma non troppo: un passaggio con la procedura H-K del pannello PPW lo desatura e scurisce ulteriormente. Per questo Andrea aveva deciso di utilizzare il canale G come base per luminosità: voleva schiarire l’erba perché aveva già ipotizzato d’intervenire in questo modo.

L’immagine precedente, trattata con l’azione denominata H-K.

A questo punto però la fotografia è smorta: sta andando nella direzione opposta rispetto a ciò che Andrea ha in mente. Questo non è un problema nel flusso di lavoro PPW, perché il colore si può suscitare ovunque, anche in maniera eccessiva. Andrea esegue una veloce selezione con lo strumento Lazo, includendo parte dell’erba, la parte bassa del tronco e le foglie, e lancia l’azione principe del pannello PPW: MMM+CB, una sigla che sta per Modern Man From Mars + Color Boost. L’azione lavora in Lab e crea variazione cromatica (MMM) e saturazione globale (CB). Le due componenti sono modificabili per mezzo dell’opacità di opportuni livelli. Quando l’azione termina, Andrea ritiene che la fotografia appaia troppo satura, e riduce a un terzo l’intensità del color boost.

L’azione MMM+CB crea variazione cromatica e di luminosità, e satura l’immagine.

Il risultato finale fa fare un passo avanti notevole al soggetto: appaiono variazioni cromatiche, che effettivamente esistono, perché i fiori di ciliegio non sono perfettamente bianchi ma hanno una componente rosa pallido. L’enfasi cromatica non li snatura, ma li fa contrastare con il resto della scena più che in qualsiasi versione precedente. Il verde dell’erba non è sopra le righe, il cielo è rimasto nei ranghi: tutti i colori sono credibili. Andrea prova ad applicare l’azione di sharpening del PPW: decide che questa fotografia non ne ha bisogno e converte l’immagine in RGB unendo i livelli. La sua post-produzione è finita.

Le mosse di Bruno

Nel frattempo, Bruno sceglie la stessa fotografia ma segue una strada diversa. Ha una discreta esperienza come fotografo, ma non è particolarmente esperto di post-produzione. La sua visione della scena è inevitabilmente influenzata dallo stato d’animo che il luogo suscita in lui, e realizzare una versione drammatica è per lui un modo, forse l’unico, per comunicare al mondo un indizio visibile del proprio dolore. Istintivamente decide di realizzare un bianco e nero, e questo sposta già la fotografia da un piano di realismo a un piano di astrazione, perché la scena originale è naturalmente a colori.

Per realizzare la sua versione, Bruno utilizza un plug-in con numerose impostazioni predefinite. Apre l’immagine in Photoshop e inizia a provare soluzioni diverse, finché non ne trova una che rende l’immagine molto drammatica: non quanto egli vorrebbe, ma è un buon inizio. Ci sono cursori denominati “Esposizione adattiva” e “Contrasto dinamico” che, spostati un po’ a caso, producono un effetto interessante. A un certo punto, Bruno pensa di essere vicino a qualcosa che rifletta il suo sentire nei confronti della scena. Si accorge del fatto che le nuvole bianche (che hanno nel frattempo assunto un’insospettata struttura) si sono scurite e sa che questo non è un bene: vuole che l’immagine esca dal monitor, non che sia piatta. Lavora un po’ con una curva presente nel plug-in per riportarne le parti più chiare verso il bianco e raggiunge il suo risultato finale. Decide di lasciare la vignettatura scura, pure prodotta dal plug-in, perché gli sembra che attiri l’attenzione sul soggetto. Anche la sua post-produzione è finita, e ha richiesto meno di due minuti e nessun approccio realmente ragionato.

Approcci diversi per risultati opposti

Ci sono pochi dubbi sul fatto che questa versione sia agli antipodi della precedente. Lo è dal punto di vista dell’aspetto, ma anche della filosofia: Andrea ha ragionato, seguendo un punto di vista realistico al quale si è sforzato di adattare l’immagine, che riflette il suo stato d’animo davanti alla scena; Bruno ha invece improvvisato seguendo un’onda emotiva fino a trovare qualcosa che lo soddisfaceva – o se vogliamo, che si adattava al suo punto di vista.

Se dovessi suggerire come correggere il colore in una fotografia di still life destinata a un catalogo, non suggerirei il secondo approccio. In un caso come questo, però, l’agire istintivo non rende la versione di Bruno meno valida a priori, anzi: è notevole che si possa ottenere una versione simile in un paio di minuti e senza conoscenze tecniche particolarmente approfondite. Qualcuno affermerebbe certamente che tra le due questa è la più “artistica”, perché più istintiva rispetto a quella mediata e ragionata di Andrea – che pure ha dei pregi. Inoltre, proprio perché si stacca nettamente da quella che sarebbe stata la percezione della scena reale, la versione in bianco e nero risulta più visionaria.

L’approccio è abbastanza ininfluente nel momento in cui si ottiene un risultato soddisfacente. Il problema per Bruno, semmai, sarebbe ottenere nuovamente un risultato simile senza avere seguito una linea logica di azione – ma questa discussione ci sposterebbe troppo. La domanda semmai è: come reagirebbe uno spettatore medio davanti alle due versioni? Non possono esistere risposte definitive, perché la reazione dipende da un grande numero di fattori: il gusto personale, l’approccio culturale, la sensibilità – e via dicendo. Quello che è certo è che le due fotografie comunicano emozioni diverse, a prescindere da come sono state realizzate. Potrei spingermi a dire che probabilmente la versione di Andrea potrebbe stare appesa al muro nella stanza di un bambino; ma quella di Bruno forse no: perché è oscura, pesante, a suo modo crudele. Ma non è neppure questo il punto.

Il punto è capire in quale misura queste versioni esprimano un contenuto o possano essere messe al servizio di un contenuto. Intendo questo: se le consideriamo come immagini slegate da un contesto, è un conto; se le dobbiamo inserire in un contesto, le cose cambiano. A me non dispiacciono entrambe le versioni, che nella realtà sono naturalmente state realizzate da “me-Andrea” e da “me-Bruno”, con lo sforzo di “dire qualcosa” di coerente con la lo stato psicologico dei personaggi che ho immaginato. Per la seconda, a differenza di ciò che faccio di solito, ho davvero seguito la linea che ho descritto: quel bianco e nero è stato trovato, non pensato. Ho seguito un istinto con la semplice intenzione di produrre qualcosa di diametralmente opposto al realismo della prima fotografia. Che piaccia o meno, è irrilevante: non getterei via quella versione – ha una sua logica. Che naturalmente non è l’unica possibile, neppure in bianco e nero.

Il punto è però che se qualcuno volesse utilizzare la foto di questo ciliegio in un articolo che illustri le bellezze della campagna per una rivista naturalistica, Andrea vincerebbe e Bruno perderebbe. Se qualcuno volesse invece utilizzarla in un’ipotetica mostra intitolata “Lo spirito nascosto del mondo”, Andrea avrebbe poche possibilità di farcela, Bruno parecchie.

Ecco dunque che il messaggio veicolato dalla stessa fotografia risulta più o meno adatto a seconda dell’utilizzo che ne viene fatto. Un utilizzo implica un contesto; l’inserimento di una fotografia in quel contesto, almeno in parte mette il suo messaggio al servizio di un contenuto: quello dell’articolo, quello della mostra. O qualsiasi altro contenuto possiamo pensare. Questa è naturalmente un’affermazione così ovvia da risultare banale: ciò che leggiamo in un’immagine dipende fortemente dal contesto in cui essa si trova.

In questo senso, nessuna delle due versioni è migliore o peggiore: dipende da come le guardiamo. Aggiungo che la divisione interiore con cui combatto quotidianamente è legata al fatto che pur provenendo da una formazione scientifica che tenderebbe a promuovere la versione di Andrea come migliore perché più realistica, sono anche istintivamente costruttivista: credo che la conoscenza derivi da un processo di costruzione di esperienze personali, più che dalla rappresentazione di una realtà indipendente. E quindi non riesco a non trovare un valore anche nella versione di Bruno, che sta agli opposti.

Si può mediare?

Il problema nasce dal fatto che le due posizioni delineate sopra non sono del tutto incompatibili, ma neppure facilmente conciliabili. Così come non sono conciliabili le due versioni proposte della stessa immagine. Entrambe hanno un valore, una logica e una rispettabilità, a prescindere dal gusto. E la loro unione?

Il colore di Andrea, la luminosità di Bruno.

Questa versione coniuga il colore di Andrea con la luminosità di Bruno. Nel farlo, fallisce: non per ragioni estetiche, ma perché veicola un messaggio contraddittorio. Non è realistica, perché si vede immediatamente che è stata pesantemente trattata; ma il trattamento non la rende suggestiva quanto la versione in bianco e nero, perché è proprio la suggestione emotiva della versione di Bruno che ci permette di rinunciare al realismo di quella di Andrea. Non appena aggiungiamo il colore, il realismo rientra dalla porta posteriore, e addio suggestione. Questa versione potrebbe piacere a qualcuno, forse, ma il fatto estetico non è così interessante. Credo sia interessante semmai il messaggio complessivo, che mi sembra confuso al punto di rendere davvero difficile mettere questa versione al servizio di un contenuto; non starebbe bene nella rivista, a differenza di quella di Andrea; né nella mostra, dove troneggerebbe quella di Bruno. Anche da solo, il contenuto non mi sembra particolarmente impattante. Non so dove questa immagine potrebbe “stare bene”.

È abbastanza chiaro che mettendo insieme due ingredienti buoni non si ottiene necessariamente qualcosa di migliore. L’ultima versione a colori non funziona, perché ci sono due cavalli che la trainano in direzioni opposte: la luminosità suggerisce il dramma, il colore – che tecnicamente è corretto – suggerisce tutt’altro. Davanti a due stimoli così divergenti il nostro cervello inizia a farsi delle giuste domande ed entra in confusione, perché non sa bene a cosa deve credere.

Quando il contesto è un non-luogo

Il problema è che in certi contesti una fotografia deve competere con altre, senza che ci sia una vera competizione ma semplicemente per essere vista. Sui social network, una versione come quella realizzata da Andrea verrebbe mediamente considerata insulsa, piatta e poco interessante. Non lo è, in realtà, e forse nel contesto di questo blog, isolata da altre immagini, funziona meglio che su Facebook o Instagram, che dal punto di vista fotografico sono non-luoghi. Ma se dovesse competere con fotografie come quella riportata sotto, cosa accadrebbe?

Questo pseudo-HDR è ciò che viene proposto in molti casi – anche come modello in certi contesti didattici. Per il mio gusto, è un abominio: ma il gusto non conta; dopo circa dieci secondi che osservo l’immagine, pur trovando sgradevole ciò che vedo, riesco perlomeno a elaborare la (troppa) informazione cromatica, semplicemente perché i miei occhi si sono abituati alla saturazione.

Se qualcuno è interessato a questo tipo di post-produzione, è una delle poche per cui posso dare una ricetta sicura e vincente. Il processo dura dieci secondi, se siete rapidi con il mouse, e l’ho battezzato. Tutto si fa in Camera Raw (o Lightroom) senza bisogno di Photoshop, e la tecnica si chiama 6+1 Cursors Ballet: basta che memorizziate le posizioni dei cursori visibili nella schermata qui sotto:

6+1 Cursors Ballet

Dovete partire da Contrasto: tutto al massimo. Luci tutto giù, Ombre tutto su, Bianchi tutto giù. Fanno eccezione Chiarezza e Vividezza: tutto su e tutto su. A quel punto guardate, se riuscite, l’immagine e se la luminosità vi sembra sbagliata regolate l’esposizione ad placentam, come direbbe chi ha studiato molto. In questo caso ho ritenuto che 0,50 fosse un valore ottimale (anche se è stata lotta intestina tra questo valore e i limitrofi – 0,49 e 0,51, lo ammetto), ma è il vostro gusto artistico che detta il numero. Sottolineo: il vostro gusto. Quello artistico.

La buona notizia è che se solo avete una fotografia esposta correttamente, questa tecnica funziona sempre. Nessun bisogno di pensare, ma grande libertà di modulare la vostra arte, solo vostra, con un unico cursore denominato Esposizione. Questo porta a una grande esposizione, soprattutto sui social network. Si slanciano i pollici al cielo in un tripudio di applausi, e a tutti piacciono gli applausi e i “bravo” che giungono da ogni dove, no? Questo perché tutti apprezzeranno che si veda ogni singolo ramoscello dello sfondo, che miracolosamente si è proiettato così avanti da diventare soggetto. Tutti apprezzeranno che le luci si siano convinte a filtrare nei quarti di tono, le ombre a infrattarsi nei tre quarti, i mezzitoni a ballare la taranta per cercare di conservare un ruolo che gli stiamo disperatamente togliendo. Perché oggi è “bello” così, senza più un solo rapporto di luminosità che si possa definire vagamente corretto rispetto a ciò che avremmo visto sulla scena. Il che, naturalmente è lecito, e ci mancherebbe: qualcuno ha mai visto Van Gogh? Il problema è che Van Gogh aveva ottimi motivi per fare ciò che faceva. Qui il motivo è uno solo e ben diverso, e vale la pena di spiegarlo.

Lasciate però che prima v’informi: vi sto porgendo su un piatto d’argento una tecnica alternativamente definita “gonfiami”, “straziami” o “manovra del pescivendolo”. Di norma sareste costretti a pagare anche tre o quattrocento euro di corso per impararla, in workshop che di solito si chiamano “Diventa un ninja di Camera Raw in sole quindici mosse!” Quindi sto letteralmente spaccando il mercato rivelandovi il segreto meglio custodito del post-produttore volante, con o senza drone. E soprattutto: ve lo rivelo gratis. E mi raccomando, non credete ai puristi con la puzza sotto il naso: questa è La Via Maestra. Questa è La Soluzione Che Emoziona. E lo fa: gratis. Emoziona, gratis.

Il risultato che si ottiene ha un solo problema, che di norma viene trascurato perché in pratica non è molto rilevante: è un’ottima candidata a ospitare colonie micidiali di escherichia coli, in non meno di 150 varianti del sierotipo (è naturalmente Vividezza che allarga lo spettro dei sierotipi). Ma tanto, sono batteri piccini, nessuno si preoccupa molto – no?

Vorrei chiarire che il problema non è la vividezza o saturazione di per sé: anni fa ho conosciuto un’artista visionaria che con i colori acrilici creava scene enormemente più sature di questa immagine; la sua pittura era astratta e concettuale al massimo grado. La sua ricerca riguardava la giustapposizione di aree cromatiche, ed era una ricerca spasmodica e a suo modo dolorosa almeno quanto la versione in bianco e nero di Bruno. Il suo lavoro era spettacolare, perché aveva una logica: mentre qui non esiste alcuna logica, tranne una, che è il motivo unico possibile per realizzare una post-produzione come questa: “Sono su un SOCIAL NETWORK, tu stai URLANDO e io per farmi ASCOLTARE o almeno SENTIRE devo URLARE PIÙ FORTE DI TE. Naturalmente a quel punto tu URLERAI PIÙ FORTE DI ME, e io PIÙ FORTE ANCORA DI TE” – e avanti ad nauseam. In un attimo le delicate ed educate variazioni cromatiche della versione di Andrea saranno un pallido ricordo, MA CHISSENEFREGA?! – anche perché a tutti la sua versione sembrerà assimilabile a un bianco e nero, schiacciata come sarà dalla saturazione delle immagini che la circondano. Cosa ancora più incredibile, una fotografia massacrata come quella dell’ultima versione sarà da molti considerata “meravigliosa”. La versione di Andrea, a fianco, non verrà vista da nessuno, e forse è meglio così: perché certamente arriverebbe qualcuno post-corso a criticarla perché piatta e poco interessante. Qualcuno che, con ogni probabilità, non sarebbe in grado di realizzarla perché non saprebbe leggere l’immagine con la stessa finezza né applicare le tecniche giuste per arrivare a quel risultato.

Ecco dunque come una post-produzione pensata e sensata diventerà un povero scatto che i sapienti definiranno da smartphone, quale orrore: destinato a inabissarsi sotto l’assalto dei trecentocinquanta milioni d’immagini che Facebook giornalmente accoglie, metà delle quali dotate di colori assurdi ma non pensati, di arte presunta ma non voluta, di cursori mossi con la mano pesante di chi pensa che tutto debba esplodere, per restare visibile.

E questo, per come io lo vedo, è male. Perché se è vero che nulla è reale in fotografia, è anche vero non esiste quasi più neppure la pretesa di rappresentarlo, quel reale; e forse un minimo di pretesa realtà, anche se trasfigurata in un doloroso bianco e nero, anche se visionaria, ci servirebbe. A meno che non diciamo che questa è arte digitale astratta per artisti concettuali pigri, fatta con sei-più-uno cursori invece che con un pennello o un aerografo. Però se è così diciamolo – e forse arriverò anche ad apprezzarla quando il mio gusto si sarà evoluto abbastanza da superare lo sgomento: ma non chiamiamola fotografia, perché la luce non scrive così; soprattutto, se mai lo potesse fare non scriverebbe così male: perché si spegnerebbe, nel farlo.

La mia ironia è assai triste, si sappia. Ma rimane ironia. Spero che venga colta – altrimenti si apra pure la fucilazione: la mia, ovviamente.
MO

15 commenti su “Un esperimento mentale”

  1. Marco ti ho letto di un fiato. Non rispondo a lungo ché ho un sacco di backlog da gestire (molto in post produzione…. naturalmente). Tocchi un argomento che sento ogni giorno. Vedo sui social foto da smartphone brutalmente ritoccate con i vari prodotti in app. Io modifico le foto che ho fatto ed il dubbio sul software di Dan Margulis (usarlo o no) me lo pongo di continuo. So a priori che ciò che rappresenterò non è realtà (non so più neanche quale è la realtà di una fotografia). Si vuole qualcosa di diverso, le modelle le ritraggo a modo mio, studio il carattere della persona poi quella particolare espressione la provoco e la ritraggo. Neanche questa è fotografia anche senza post produzione. Ho iniziato ad abbandonare i plugin come quello di Dan Margulis per essere “diverso” dalle altre migliaia di fotografi che sfruttano lo stesso software. Il bianco e nero lo faccio a modo mio, non sarà più replicabile neppure da me, che non ricorderò certo il numero di livelli e le azioni compiute per rendere un certo aspetto. Quella che ottengo non è arte e non è fotografia: solo “diversificazione”. Non so quanti lo apprezzano spero almeno i miei clienti.
    Nelle discussioni precedenti ho sentito qualcuno che riportava come unica forma di fotografia quella analogica. Io sono nato con la foto analogica e dico che a suo tempo in camera oscura si passavano le giornate per ottenere effetti sorprendenti. Poi ho passato 40 anni nell’informatica e sono diventato un mago del software. Oggi come allora manipolo le immagini, come ho detto addirittura dalla prima fase di composizione e ripresa.

    E’ bellissimo il tema che ci proponi, e ti ringrazio per aver avviato questa discussione. Eccezionale comunque il metodo letterario che hai scelto per impostarla. Un grazie da
    Roberto Salvatori

    1. Sono molto contento che apprezzi, Roberto – grazie. In realtà non ho alcun interesse specifico nel promuovere una tecnica piuttosto che un’altra, e figurati se mai potrei sostenere una filosofia “no-post”: anche un ritocco alle luci o alle ombre è post-produzione, ed è necessaria nel 99% dei casi perlomeno per adattare l’immagine al media che dovrà ospitarla. Il dito lo punto sull’insensatezza e sulla pretesa che si possa chiamarla “arte”, quando l’arte vera è sudore, cultura e, ahimè, spesso dolore.

      A presto e buona post :).
      MO

  2. Favoloso, mi piace trovare testi che offrono più di semplici dati e informazioni. Testi sulla fotografia che riflettono. Mi ha fatto pensare al filosofo Zizek, e la sua idea di “ideologia è ovunque, anche nel più piccolo oggetto”. Questo oggetto può essere una fotografia. In questo senso: ogni cambiamento modifica la percezione, e non solo esteticamente, anche socialmente, politicamente, emotivamente e altri. eccetera ottimo articolo, grazie mille

    1. Grazie Giulio,
      felice che l’articolo ti sia piaciuto. Era una piccola provocazione per attirare l’attenzione sul fatto che esistono tante visioni diverse. Penso anche che qualsiasi manifestazione artistica, non solo la fotografia, possa essere un atto sociale e politico – con tutta la variegata serie di significati che queste parole possono assumere.

      A presto!
      MO

  3. Grazie per l’articolo, molto interessante, anche se è rivolto al pubblico più preparato di me 🙂
    Se dire il vero, tra le foto proposte non mi piace nessuna, forse un pò meglio è quella di “Bruno”, ma quella di “Andrea” si, la trovo piuttosto piatta. Le altre due sono orrende e quì sono d’accordo con lei. Però sono molto curiosa se da questa foto non si può veramente fare niente di meglio, magari lei mi potrebbe mandarla sulla mail? Almeno ci provo 🙂 …

    1. Grazie del commento, Laura. Mi sembra che paradossalmente centri esattamente il punto che volevo provare, in fondo: ovvero che non esiste una versione “migliore” in assoluto se guardiamo la cosa dal punto di vista soggettivo. E anche il rovescio di questo: una versione canonica, in cui impostiamo il punto di luce e il punto di ombra in modo che rispettino delle regole prestabilite, e ci assicuriamo che tutti i colori siano credibili, è probabilmente “migliore” dal punto di vista tecnico di una foto su cui non venga fatto alcun intervento, ma non è detto che risulti anche la versione con il massimo impatto emotivo… che, di nuovo, varia da persona a persona. Per questo mi è difficile capire cosa significhi “fare di meglio”. Né sono del tutto sicuro che oggi la mia correzione “migliore” potrebbe coincidere con quella di un anno fa o con quella che potrei fare tra un anno.

      Grazie e a presto!
      MO

  4. Ciao Marco, interessantissimo articolo su un argomento troppo poco dibattuto: il limite. A volte è un demone che si insinua e ti costringe a spingere il cursore anche oltre i 100 punti, come se così facendo dimostrassi che tu puoi e gli altri no…è un po’ la “malattia digitale del momento”. Circa l’uso del termine artistico, mi farebbe piacere rivolgere la canonica domanda: “Qual’è il messaggio che vuoi veicolare con questa interpretazione che definisci artistica?” Sono convinto che la maggior parte degli urlatori tap dipendenti darebbe delle risposte a dir poco discutibili.
    Mi piace molto l’idea dell’emotività legata alla post produzione ed in effetti, io stesso definisco alcune mie giornate “in bianco e nero” ed in quei casi, addirittura parto già impostando un profilo macchina monocromatico, proprio perchè è il giorno giusto…….non “artisticamente giusto”……
    Davvero interessante e stimolante questo articolo, complimenti!!

    1. Grazie Ivano, e scusa se rispondo con grande ritardo. Mi fa piacere che questo articolo sia stato gradito a molti, perché in realtà lo scrissi in maniera molto obliqua. Diciamo che lo scrissi pensando a una cosa specifica diversa da quella che probabilmente passa – anche se ha a che fare con l’emotività legata al ri-vedere (trattino voluto) una fotografia. Il nodo, a mio parere, è cosa vogliamo definire “fotografia” e cosa è invece, più genericamente, “immagine”: non è una questione di lana caprina, come qualcuno potrebbe pensare. Basta che ci guardiamo attorno e comprendiamo quanta confusione ci sia attorno a questo termine. Ed è un vero peccato.

      Un caro saluto!
      MO

      1. Ciao Marco, non ti preoccupare dei tempi di risposta, ci mancherebbe altro! La tua domanda è piuttosto difficile a mio parere: di per se una fotografia NON è una rappresentazione della realtà, ma l’interpretazione che vuole dare il fotografo di una situazione reale. Basta pensare ad uno scatto dove un particolare omesso trasforma una situazione da negativa a positiva o una persona da buona a cattiva. Già in partenza quindi è difficile definire chiaramente cosa stai vedendo, se poi ci aggiungiamo anche l’emotività che porta ad interpretare in maniera digitale lo scatto e creare quindi l’eventuale immagine completamente avulsa da quella di partenza allora il casino diventa totale. Da questo punto di vista, spesso comprendo poco alcuni amici che mi girano dei loro scatti chiedendomi di “interpretarli” in post produzione…confesso che spesso non so neanche da dove cominciare se non da una valutazione realistica dei colori presenti, ma chiedere ad un’altra persona di fare un lavoro che spesso, come dici giustamente tu, è legato anche all’emotività del momento….boh…lo trovo poco sensato.
        E’ un mondo (quello fotografico) che risente della facilità con cui si ha accesso a contenuti e strumenti e quindi la molteplicità delle persone genera altrettante idee, puntualmente una in contrasto con l’altra….bel dibattito questo!! 🙂
        Un caro saluto anche a te!
        Ivano

        1. Pochi lo sanno, ma 7-8 anni fa raccolsi alcune immagini e le passai a un gruppo di 6-7 persone che si occupavano di post, a diversi livelli. Chiesi una cosa molto strana: di produrre cinque versioni di ciascuna immagine, basandosi su una semplice valutazione oggettiva del proprio umore o stato d’animo. Ad esempio, di post-produrre le immagini date in un momento in cui si sentivano felici; o tristi; o arrabbiati. E via dicendo. L’idea era di verificare se poteva esistere una tendenza di massima, anche vaga, della “direzione” della post. Qualcosa del tipo: “tutti quando si sentivano felici hanno prodotto toni più caldi di quando si sentivano tristi”, o cose del genere. Non quantitative, o perlomeno non schematizzabili: ma un esperimento euristico, diciamo così. Il risultato – e la cosa mi sorprese – fu che le interpretazioni sembravano del tutto casuali. Non c’erano regolarità visibili nel contrasto, nel tono, nella saturazione o via dicendo, raggruppando le immagini in gruppi.
          In base a questo esperimento, peraltro molto “zoppicante”, come comprendi, non creo che sia ovvio stabilire una connessione tra emotività e risultato finale. In questo senso, anche il mio articolo è del tutto soggettivo. Quando ho post-prodotto le immagini che ho pubblicato, per dire, non ero realmente in uno stato d’animo definibile – ho semplicemente pensato “forse una persona che si sente in un certo modo farebbe questo”, ma il mio giudizio vale come quello di qualsiasi altro, ovvero molto poco.
          Però sì, è un tema interessante, e rimango sorpreso di quanto questo articolo del tutto non-tecnico abbia solleticato la fantasia di diverse persone. Stranezze… 😉

          A presto!
          MO

          1. In effetti, forte anche di questo esperimento, non posso che darti ragione e probabilmente anche io mi sono un po’ immedesimato nelle persone immaginarie e nei loro presunti stati d’animo. Forse si potrebbe ritentare utilizzando 2 post produttori e 2 fotografi post produttori cercando di capire se la “sensibilità” che un fotografo genericamente dovrebbe avere, può rendere più prevedibile la sua post produzione. Fantasperimentazione, lo so…però non mi stupisco del fatto che questo articolo abbia solleticato l’interesse di molti. Personalmente mi dico spesso: “Ma tu che stile di post produzione hai?” E non so rispondermi…Il tuo articolo mi ha dato modo di riflettere un po’ di più su questa cosa e su come potrebbe (uso il condizionale…) essere influenzato anche dallo stato d’animo. Dovrebbe essere una soddisfazione aver coinvolto così tante persone su un argomento non tecnico, soprattutto per te che sei un grande tecnico! Se ti capita di passare per Treviso o dintorni, mandami una mail che ti offro volentieri un caffè!!
            A presto!
            Ivano

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