Un annoso problema di esportazione – pt. 1

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Quasi un articolo on demand

Questo articolo è, in realtà, una Roadmap sotto mentite spoglie. O meglio – è il dettaglio microscopico di una Roadmap che attraversa l’estremo ovest dell’Emilia Romagna. Il contenuto nasce da una domanda che mi è stata posta durante un momento di formazione aziendale che ho svolto per un’importante agenzia pubblicitaria di Parma, assistito dall’ottimo Fabio Bertozzi, ma si tratta di una domanda che mi viene posta di frequente e che è a suo modo imbarazzante perché non ha una risposta univoca come vorrei. Inoltre la risposta va contestualizzata e questo richiede parecchio tempo – quindi mettetevi comodi. Come molte domande complesse, questa si presenta in una forma insidiosamente semplice:

Come devo esportare in PDF i documenti di InDesign per inviarli alla tipografia?

Chi compie questa operazione si deve spesso districare tra opzioni non ovvie, ancor meno intuitive e soprattutto documentate in maniera oscura. Un esempio: qui trovate la voce di Wikipedia dedicata agli standard PDF/X. Wikipedia è di solito una sorgente affidabile di informazioni per chi voglia rendersi conto di quali siano i confini di massima di un certo argomento, ma nel caso di questo articolo mi sentirei di affermare che i confini di massima saranno chiari solo a chi già conosca la materia. Non che sia scritto male: ma affronta un vero e proprio vespaio dietro al quale ci sono più concetti complessi di quanti vorremmo affrontarne nell’arco di una sola domanda. Vi faccio anche notare che l’articolo è disponibile in pochissime lingue, e non esiste in italiano.

Il misterioso fattore X

Il menu della finestra Esporta Adobe PDF di InDesign.
Il menu della finestra Esporta Adobe PDF di InDesign.

Se non sapete bene da dove esca il termine PDF/X, date un’occhiata all’immagine a sinistra. Nel complesso menu dedicato all’esportazione dei PDF in Adobe InDesign, alla voce Generali, trovate un menu a discesa denominato “Standard”. Oltre alla voce predefinita “Nessuno” potete scegliere attualmente tra cinque varianti di un certo PDF/X. Metto le mani avanti: questo articolo non è una descrizione delle caratteristiche dei vari standard PDF/X. Onestamente, non mi sentirei neppure di scrivere un articolo del genere e c’è chi lo ha già fatto molto meglio di quanto potrei farlo io – Mauro Boscarol. Quello che voglio fare è esaminare gli scenari possibili che si possono presentare in un flusso di lavoro dedicato alla stampa tipografica e cercare di far luce su alcuni aspetti dello stesso che non solo non sono ovvi, ma sono spesso anche fonte di discussioni accese e non sempre risolutive. Vediamo perché.

Partiamo delineando un flusso di lavoro elementare. Un fotografo scatta una fotografia per una campagna pubblicitaria. La fotografia viene post-prodotta e approvata dell’art director. Passa a un grafico che si occupa dell’impaginazione. L’impaginato dev’essere convertito in formato PDF per la stampa. Viene quindi consegnato alla tipografia che mette in atto una serie complessa di operazioni che portano, infine, allo stampato finale. Vi avverto: sto iper-semplificando. Ad esempio, in questo flusso di lavoro non compare alcuna menzione della prova di stampa, il cui scopo è quello di fare una previsione dell’effettivo aspetto della stampa finale. La prova di stampa dovrebbe essere approvata dal cliente (o da un suo delegato) e, una volta firmata, rappresentare un elementare contratto tra il cliente e lo stampatore volto a mettere al riparo entrambe le parti da contestazioni. Questo, in teoria. La cruda verità: spesso la prova di stampa non viene realizzata. Il motivo? “Costa.” Tralascio di discuterne, ma solo perché vorrei mantenere una linea il più nitida possibile mentre cerco di attraversare una palude piena di insidie come l’argomento che sto per affrontare.

Vittime della prestampa coatta

Parte dell'articolo sulla campagna fotografica 2013 di Dolce e Gabbana (Da Amica, gennaio 2013). Grazie ad Antonella Desiati per la scansione!
Parte dell’articolo sulla campagna fotografica 2013 di Dolce e Gabbana (da Amica, gennaio 2013). Grazie ad Antonella Desiati per la scansione!

In questo articolo sarò diplomatico, ma vorrei anche dire le cose come stanno, perlomeno dal mio punto di vista. Prendiamo il flusso di lavoro descritto poco fa: se qualcuno mi venisse a dire “mi serve una fotografia eseguita professionalmente di questo prodotto”, nel momento in cui io dicessi “certo, te la posso fare” starei commettendo un grosso errore procedurale ed etico. Per un semplice motivo: io non sono un fotografo, punto. Sono in grado di scattare una fotografia, certo; ma questo non mi rende un fotografo. Se lo facessi solleverei un’ondata di polemiche, giustificatissime, da parte dei fotografi professionisti. Se pensate che questo non accada, anche ai massimi livelli, leggete qui: una persona che di mestiere fa lo stilista, e lo fa bene, decide a un certo punto di diventare fotografo per una sua campagna. Se avete fretta, il riassunto (scansionato da una nota rivista) è riportato qui a fianco. È perfettamente possibile che uno stilista si riveli un fotografo bravissimo e geniale, ma credo che possiate concordare sul fatto che la scelta operata è abbastanza particolare, soprattutto quando è in gioco una campagna fotografica di questo calibro. La mia non è una polemica: mi limito a constatare. Ma devo anche constatare un altro fatto: si pretende, ormai quasi sempre, che un grafico operi anche come un tecnico di prestampa. Di questo non si scandalizza nessuno, tranne i grafici che, giustamente, si lamentano quando devono ricoprire ruoli non loro per cui non si sentono preparati. Perché questa differenza di atteggiamento?

La definizione del termine “prestampa” è complessa e vaga. Si potrebbe liquidare la cosa con un sorriso dicendo che prestampa è tutto ciò che avviene prima della stampa vera e propria. Ma a cosa ci riferiamo esattamente? Partiamo dall’ipotesi che l’immagine sia pronta e approvata. Il grafico che sceglie l’impaginazione, la font da usare, e via dicendo, sta facendo prestampa? In senso stretto, sì. Dal mio punto di vista, no. Per me, il termine prestampa ha un significato diverso: il progetto è chiuso, approvato e finalizzato. Vive in un documento InDesign e deve venire stampato. La prestampa parte qui, e si trasforma in stampa nell’istante in cui l’inchiostro si trasferisce dalle lastre alla carta. Se preferite, la prestampa come io la intendo inizia laddove il grafico ha finito il suo lavoro canonico. Comprende quindi, ad esempio, la realizzazione delle lastre stesse, che viene normalmente effettuata all’interno della tipografia; può comprendere la riapertura delle immagini contenute nel documento per un’ispezione ed eventualmente delle rettifiche dell’ultimo minuto; e comprende certamente la preparazione del file (PDF) da consegnare alla tipografia in modo che le lastre di stampa non contengano poi sorprese.

Questo, relativo alle sorprese, è uno dei punti che sfugge a molti: fino a che il documento esiste solo in forma digitale, è pulito, preciso e perfetto – almeno in linea di principio. Ma la stampa è una faccenda molto fisica, realizzata tramite quantità industriali d’inchiostro che colpiscono quantità altrettanto industriali di carta che passa tra rulli ad altissima velocità, dentro una macchina lunga come un camion letteralmente invasa da leveraggi, pompe, meccanismi di precisione, sensori, e chi più ne ha più ne metta. Una macchina con una serie infinita di problematiche di allineamento delle lastre, sbilanciamenti nelle quantità d’inchiostro ottimali (spesso diverse in parti diverse delle lastra), asciugatura degli inchiostri stessi. Insomma: la stampa è una faccenda sporca, punto – nel senso stretto ed effettivo del termine. Tutto il problema sta lì: non esiste, in un certo senso, una separazione in quadricromia che sia ottimale. Esiste semmai una categoria di separazioni, a seconda dell’immagine su cui stiamo lavorando, che mette al riparo almeno in parte dai vari disastri che possono succedere al momento della stampa. In questo senso, una separazione che prevenga i problemi è preferibile molte volte a una che sulla carta (scusate il gioco di parole) è migliore ma che può nascondere insidie anche assai sgradevoli e potenzialmente distruttive per il risultato finale.

Vorrei far luce su questo aspetto della cosa, anche se non è affatto semplice: per questo cercherò di essere il più lineare possibile, senza tecnicismi, che andrebbero riservati a discussioni più tecniche e più approfondite. Prima di iniziare, però, vorrei fare una considerazione generale che chiarisca esattamente da quale parte della barricata io viva.

Da tutto questo discorso discende un’osservazione semplice: non vorrei che un grafico fosse obbligato a svolgere le operazioni di prestampa, così come non vorrei vedere un tipografo scattare le fotografie per una campagna pubblicitaria. Sono due lavori diversi, con specializzazioni diverse, e la confusione dei ruoli che regna nel mercato attuale produce spesso disastri che si potrebbero evitare. La mia regola è molto semplice: a ciascuno il suo mestiere. Posso credere che un buon fotografo sia anche un buon post-produttore, ad esempio. Posso credere che un grafico possa essere dotato di una sensibilità fotografica che lo porti a creare il proprio lavoro in modo da valorizzare il più possibile le immagini che deve inserire in una pubblicazione. Ma faccio fatica a credere a una figura professionale che sia in grado di fare tutto, e intendo assolutamente tutto, a livelli di eccellenza. Non è possibile, o è perlomeno al limite dell’impossibile, semplicemente perché la materia nella sua globalità è così complessa da impedirlo. Un esempio: io so usare i programmi di grafica. Ho visto grafici professionisti disegnare tracciati sottili in Illustrator in quadricromia utilizzando un nero ricco (ovvero composto da componenti in tutti e quattro i colori CMYK): questo è un errore tecnico e so sia di doverlo evitare che come evitarlo. Se non lo evito, consegno allo stampatore un lavoro che ha buone probabilità di trasformarsi in disastro nel momento (sporco) in cui l’inchiostro colpirà la carta. Il punto cruciale è però che questa competenza non mi rende un grafico, né mi rende migliore di un grafico che non abbia messo bene a fuoco il problema. Mi rende solo più specializzato in un certo settore, ed è a quel settore che mi devo limitare. Detto questo, entriamo nel ring.

I tre punti cruciali

Vorrei discutere tre punti che sono usciti nel contesto dell’incontro di formazione a cui accennavo all’inizio dell’articolo. Li schematizzo come segue.

1. Due anni fa un esperto ci ha detto di inserire le immagini in RGB nel documento di InDesign e lasciare il compito della conversione all’esportazione in PDF. Tu stai sostenendo il contrario. Perché?

 

2. Alcuni fotografi ci mandano le fotografie già convertite in CMYK e noi non le dobbiamo modificare in alcun modo. Quindi possiamo usare solo quelle versioni.
 

3. Ci serve una ricetta universale e semplice per produrre un PDF che sia sempre valido e che non dia problemi alla tipografia.

Nel seguito dell’articolo vorrei sviluppare delle risposte dettagliate a questi punti, ma inizio con tre risposte brevi e sintetiche, in forma di commento e senza troppi giri di parole, soprattutto nel caso che a qualcuno di voi possa interessare approfondire solo una di queste tematiche che sono di per sé abbastanza complesse. I commenti brevi sono i seguenti.

1. Personalmente chiamo questo flusso di lavoro”RGB-centrico”: in realtà è un flusso di lavoro che ha due varianti possibili, denominate tecnicamente “mixed binding” e “late binding” che si differenziano a seconda di quando venga effettuata la necessaria conversione in CMYK. Non è un flusso di lavoro insensato, anzi è perfettamente adatto in certi contesti, ma in altri mi lascia assai perplesso, soprattutto quando la qualità della riproduzione di immagini potenzialmente critiche sia un fattore chiave. La mia scelta di campo è diversa, e consiste in un flusso “early binding” che prevede la conversione delle  immagini da RGB a CMYK in Photoshop e l’inserimento in InDesign di queste ultime, ma non è l’unica possibile. Io mi attengo alla mia scuola di pensiero, ma riconosco la validità di alcune affermazioni delle altre.
 

2. Senza essere irrispettoso nei confronti del lavoro dei fotografi, nego che questa affermazione sia valida in generale. Tutto sta nell’interpretazione esatta della parola “modificare”, che non ha un senso univoco. In più, ci sono altri fatti non collegati alla fotografia che rendono questa idea poco realistica in un flusso di lavoro reale.
 

3. Non esiste una ricetta universale. Esiste, semmai, una serie di considerazioni che può suggerire cosa convenga fare di caso in caso.

Nota preliminare: FOGRA39 non è un profilo colore

Una delle frasi che si sente pronunciare più spesso è questa: “…converti in FOGRA39…”. Da un punto di vista formale è errata perché sottintende che FOGRA39 sia un profilo colore. Non è così, e vediamo perché.

La conversione in uno dei profili CMYK standard di Photoshop.
La conversione in uno dei profili CMYK standard di Photoshop.

L’espressione “…converti in FOGRA39…” corrisponde in realtà a un’operazione (in Photoshop, in questo caso) che ho riprodotto nell’immagine a fianco. Si tratta di una conversione in profilo (Menu Modifica -> Converti in profilo…) operata su un documento che il più delle volte sarà codificato in una qualche variante di RGB, ma che potrebbe essere anche CMYK o Lab. Cliccate sull’immagine per ingrandire: il profilo in cui sto convertendo non è “FOGRA39” bensì il quasi impronunciabile “Coated FOGRA39 (ISO 12647-2:2004)”. Se guardate più in basso, peraltro, potrete notare diversi profili colore che iniziano con il nome FOGRA39: non sono profili preconfezionati in Photoshop, ma sono stati aggiunti da me e sono, se così vogliamo chiamarli, delle varianti del profilo originale che mi servono in certi contesti. Anche i tre profili che iniziano con le lettere FCP sono varianti del profilo originale, così come il profilo “ISO Coated v2 300% (ECI)”.

Già, perché FOGRA39 non è un profilo in senso stretto, bensì una caratterizzazione. Una caratterizzazione è, in poche parole, una serie di numeri che definisce quali siano i valori Lab dei colori primari (C, M, Y, K al 100%) e di certe loro combinazioni all’interno di un certo processo di stampa. La caratterizzazione è relativa a condizioni ben precise: il tipo di carta, il metodo di stampa e via dicendo. In parole ancora più povere: le specifiche statunitensi SWOP prevedono che l’inchiostro ciano abbia un certo colore; quelle europee prevedono un colore diverso. È palese che se caricassimo in una macchina da stampa europea degli inchiostri diversi da quelli che vengono usati abitualmente, a parità di altre condizioni otterremmo un risultato diverso in stampa. La caratterizzazione ci dice dunque che determinate percentuali di inchiostro stampate secondo certi criteri devono dare una lettura strumentale di un certo tipo. Ma una caratterizzazione non è un profilo colore: un profilo è semplicemente qualcosa in grado di produrre una separazione compatibile con la caratterizzazione a cui si riferisce in determinate condizioni di stampa, che dipendono – lo ripeto – dal tipo di carta utilizzato e anche dal sistema di stampa che scelto per produrre il lavoro. Se volete approfondire la faccenda, potete consultare il blog di Mauro Boscarol a questo link.

Caratterizzazione #2: la vendetta (di Davide Barranca)

Allora: spiegare questa faccenda in maniera semplice è veramente complicato. Avevo riscritto la parte precedente tre volte e non ero ancora convinto che avesse la forma giusta. Allora ho preso il tutto e l’ho mandato a Davide Barranca, che ha giustamente criticato diverse parti e ha suggerito alcune precisazioni che ho inserito nel testo che avete appena letto. E poi mi, anzi, vi ha fatto un regalo, che con il suo permesso pubblico qui di seguito.

Riformulo il pensiero. Spiegare questa faccenda è veramente complicato. A meno che.

A meno che voi non siate Davide Barranca. Quella che segue è la sua idea su cosa sia una caratterizzazione.

La caratterizzazione:

1. Non è un profilo colore
2. Serve per fare un profilo colore (caratterizzazione + software => profilo ICC)
3. E’ una tabella, che fa corrispondere a (relativamente poche) combinazioni di inchiostri un valore Lab
4. Rappresenta la media del comportamento (in termini colorimetrici) dei dispositivi di stampa che rappresenta (macchine a foglio, inchiostri ISO, schiacciamento del punto, ecc.)
5. Per ogni caratterizzazione, esistono infiniti profili.

 

Esempio: I tortellini ISO12647.

 

Caratterizzazione: FOGRA74, depositata alla Camera di Commercio, Industria Artigianato e Agricoltura di Bologna dalla Dotta Confraternita del Tortellino e dalla Delegazione di Bologna della Accademia Italiana della Cucina il 7 Dicembre 1974.

 

Ingredienti:
– 300 gr. di lombo di maiale
– 300 gr. di prosciutto crudo
– 300 gr. di vera mortadella di Bologna
– 450 gr di formaggio Parmigiano Reggiano
– 3 uova di gallina
– 1 noce moscata.

 

Profilo: TortellinoCervellati.icc
Hardware: la cucina di mio nonno
Software: mio nonno
DeltaE medio: 0.1

 

Profilo: TortellinoCandini.icc
Hardware: la cucina di mia suocera
Software: mia suocera
DeltaE medio: 0.6

 

Profilo: CappellettiZiaMarisa.icc
Hardware: la cucina della zia Marisa
Software: la zia Marisa.
DeltaE medio: 10.5

 

È chiaro che la zia Marisa usa inchiostri, eh – no, ingredienti non standard, ovvero del modenese.
Et capé al cunzèt?! 😉

E se non sono riuscito a spiegare il concetto così (m’inchino alle doti di chiarezza di DB), non credo che ce la farò mai. E vorrei farvi notare, en passant, la spaventosa varianza di Zia Marisa.

1A. RGB o CMYK?

Personalmente, non ho alcun dubbio: se il mio output finale è tipografico, converto le mie immagini in CMYK. Dal mio punto di vista la domanda che viene posta è un no-brainer, come dicono gli inglesi: qualcosa a cui non vale neppure la pena di pensare per quanto ovvia è la risposta. Il vero problema è che la teoria si scontra poi con una realtà di mercato in cui le figure professionali assumono ruoli spesso sfumati, per non dire confusi: e quindi chi non dovrebbe fare prestampa, fa prestampa. Il risultato: invece di mettere le persone giuste nel posto giusto si cambia il metodo di lavoro, affidando a un sistema automatico la parte difficile del processo. Se preferite, si toglie la responsabilità al grafico affidandola a una macchina. Mi scappa un commento istintivo: MAH…

Faccio un paragone: supponiamo che mi chiediate di post-produrre delle immagini per il vostro sito web. Il metodo colore canonico per il web, di fatto l’unico sensato, è RGB nell’incarnazione nota come sRGB. Io preferisco però fare il mio lavoro in Lab, e questo è lecito; vi consegno dei files TIFF in tale metodo colore. Dal mio punto di vista non ha senso: devo consegnarveli in sRGB, e magari, già che ci sono, anche in formato JPEG, vista la destinazione. Posso benissimo lasciare a voi il compito di convertire e risalvare i files, ma è un rischio: se le mie immagini in Lab contenessero dei colori fuori dal gamut di sRGB, la conversione vi caricherebbe di una responsabilità non vostra. In un flusso di lavoro ideale dovreste analizzare le immagini una per una, prendere il telefono in caso di problemi e dirmi “Marco, la 34 è fuori gamut – che facciamo?” Molto meglio che sia io a scoprire che l’immagine è fuori gamut e che agisca di conseguenza. In alternativa, una soluzione meno soddisfacente: nel caso delineato sopra potreste scrivere un’azione semplicissima che contenga le istruzioni “Converti in sRGB e salva in JPEG”, creare una droplet, trascinare la mia cartella con i files in Lab sulla stessa e andare a prendere un caffè. In questo modo, però, lascereste alla macchina la responsabilità di maneggiare eventuali problemi. Potreste farla franca oppure no; ma se dei problemi ci fossero potreste dare la colpa soltanto a voi stessi, in prima battuta; e, in seconda, a me – per avervi fornito dei files corretti in un certo contesto ma non adatti al vostro tipo di output.

Un lungo discorso, questo, che si riassume in un’idea molto semplice: se la lingua del dispositivo finale di output è CMYK, conviene che ci sforziamo di parlare questa lingua e non quella che sembra più comoda a noi. In questo senso, fino a che l’ultima tipografia non chiuderà, io fornirò dei PDF per la stampa nati da documenti InDesign in cui le immagini sono codificate in CMYK. Ovvero, early binding per me.

Detto questo, il flusso di lavoro RGB-centrico può avere un senso. Se quello che dovete fare è impaginare un lavoro con molte immagini poco critiche, magari di piccola dimensione, e siete certi a priori che i colori fuori gamut e altre simpatie di questo genere non causeranno problemi particolari, potete anche procedere nel modo più semplice. Piazzate i vostri files RGB in InDesign e lasciate che l’esportazione si preoccupi della conversione (mixed binding). La qualità non dev’essere così importante, però. Per altri lavori, come una curatissima pubblicazione di moda, un catalogo di rubinetteria in cui sia assolutamente necessario mantenere il controllo della neutralità, una stampa di grande formato in cui il dettaglio sia cruciale e via dicendo, io sconsiglio caldamente di procedere in questo modo.

1B. RGB? Ok, se proprio volete…

Anteprima selezioni colore in InDesign.
Anteprima selezioni colore in InDesign.

Nel caso che decidiate di seguire questa strada, cosa fa InDesign nel momento in cui posizionate le immagini sulla pagina? La risposta è semplice: dipende. Dipende essenzialmente da come esporterete il PDF. Ma di una cosa possiamo stare sicuri: InDesign si prepara, se glielo richiederemo, a produrre una separazione CMYK. Nella figura a fianco potete vedere quattro versioni diverse della stessa immagine. La prima in alto a sinistra è l’originale, sRGB. A seguire, a destra, una separazione dell’originale nel profilo di default di Photoshop (che chiamerò per brevità da qui in avanti “FOGRA39” come fanno tutti, pur tenendo bene in mente il discorso fatto poco fa). Sotto, da sinistra a destra, due diverse separazioni in CMYK, effettuate convertendo l’originale in altrettanti profili caratterizzati da un GCR basso e alto, rispettivamente. Del GCR parlerò tra breve; per ora fidatevi del fatto che si tratta di profili basati sulla caratterizzazione FOGRA39, ma diversi dal profilo standard Adobe. Il pannello visibile in basso è quello denominato Anteprima selezioni colore. Potete richiamarlo dal Menu Finestra -> Output -> Anteprima selezioni colore, naturalmente in InDesign. Quando lo attivate, avete la possibilità di visualizzare una preview delle lastre di stampa, inchiostro per inchiostro, direttamente in InDesign. Nello screenshot vi sto mostrando una simulazione della lastra del nero. Come viene realizzata tale preview? Tenete conto che uno di questi files, quello in sRGB, non ha alcuna lastra del nero: è codificato in RGB, non in CMYK. E se vi mostrassi il canale del nero dei tre restanti files in Photoshop vi accorgereste che esso è diverso tra un file e l’altro, perché la separazione che lo ha generato è diversa. Qui, invece, il canale del nero dei quattro files è uguale. Questo accade perché la preview viene calcolata in base al profilo CMYK del documento InDesign. Se convertiste, in InDesign, il documento in un altro profilo CMYK la visualizzazione cambierebbe. Nel mio caso il documento è definito nello spazio CMYK di default, FOGRA39. Quello che vedete è il dunque canale del nero così come apparirebbe nel caso che tutti i files venissero convertiti in questo profilo. In pratica, soltanto uno dei canali del nero coincide con l’originale – ed è quello dell’immagine in alto a destra. Gli altri vengono calcolati ex novo (nel caso dell’immagine sRGB) o ricalcolati (nel caso delle due immagini CMYK in basso, che hanno un profilo diverso). Tenete conto che le immagini che ho utilizzato hanno il profilo incorporato: sanno che cosa sono, in pratica, e anche InDesign lo sa. Il programma sta semplicemente forzando la visualizzazione a ciò che accadrebbe convertendo tutte le immagini nello spazio predefinito del documento stesso.

Se vi concentrate solo sull’immagine RGB è facile capire che questo processo è alla base del flusso di lavoro che ho denominato RGB-centrico, nella sua variante mixed binding. Al momento dell’esportazione è sufficiente che io istruisca InDesign a produrre un PDF destinato a una certa condizione di stampa, definita da un certo profilo, e quello che otterrò sarà un PDF contenente oggetti CMYK adatti alla stampa con il profilo da me scelto come intento di output (questo è il nome tecnico). Attenzione, però: nel caso in cui le immagini siano miste, e con profili CMYK diversi come in questo esempio, i profili CMYK potranno venire uniformati al profilo di output e perderò i vantaggi della conversione personalizzata che avrò fatto al fine di trattare l’immagine nel migliore dei modi. Sottolineo che questo è solo un esempio: le tre separazioni CMYK hanno un puro scopo dimostrativo, e almeno una è decisamente inadatta per un’immagine di questo genere, che non avete visto ma che è coloratissima nell’originale.

DIDASCALIA QUI.
Le opzioni relative all’output nella finestra di esportazione PDF in InDesign.

La ricetta per ottenere questo genere di PDF è semplice. Dovete solo essere sicuri che questo è esattamente ciò che volete ottenere, però. Se lo siete, procedete come segue. Quando esportate il PDF, selezionate dal menu degli Standard mostrato all’inizio dell’articolo la voce PDF/X-1a:2003 e poi cliccate sulla voce Output nel menu a sinistra (screenshot qui a fianco). Questo standard PDF è caratterizzato da una richiesta molto forte: il PDF può contenere soltanto elementi CMYK ed eventuali tinte piatte (colori spot). Non sono ammessi elementi RGB o Lab. Ci sono molte altre e complesse specifiche, che potete leggere se lo desiderate sempre nel blog di Mauro Boscarol, a questo link.

Anteprima output in Acrobat
Anteprima output in Acrobat

Dovrete scegliere l’intento di output, ovvero il profilo colore che descrive le vostre condizioni di stampa, e il PDF finale conterrà soltanto immagini convertite in tale profilo colore. Nello screenshot sopra riportato ho scelto il profilo standard FOGRA39. Se, una volta prodotto il PDF andrete a visualizzare la preview delle lastre con la funzione Anteprima output in Adobe Acrobat, vedrete la stessa cosa che avete visto in Anteprima selezioni colore in InDesign.

2. Intervenire o no sui files che ci vengono consegnati?

Un altro no-brainer, per quanto mi riguarda, ma più delicato. Come ho specificato nella risposta breve, è cruciale il significato che diamo alla parola “modificare” quando parliamo di effettuare modifiche a immagini che ci vengono consegnate già in formato CMYK.

Mi rendo conto che l’affermazione che sto per fare può non essere simpatica, ma mi limito a riferire quello che per me è un dato di fatto. Parto da una considerazione non riferita alla stampa. Durante i miei corsi, parlando di profili colore, dico sempre: “ricordate che lo standard di fatto che dovete utilizzare quando preparate delle immagini per il web è sRGB” e spiego i motivi di questa affermazione. Ho avuto davanti più di duecento studenti negli ultimi due anni, e vi posso garantire che in una classe di dieci persone questa affermazione mi dà la garanzia assoluta di vedere dieci penne in movimento che prendono appunti: segno evidente che la faccenda non è poi così nota. Circa metà dei miei studenti sono professionisti: fotografi o grafici. Questo non cambia le cose: alcune informazioni elementari come questa non sono ancora passate nel bagaglio delle conoscenze standard, se non in rari casi.

Allo stesso modo, se mi chiedeste di fare il nome di un fotografo, professionista o fotoamatore, in grado di convertire con cognizione di causa un file RGB in CMYK, la mia lista sarebbe desolantemente vuota. Ripeto, perché non voglio offendere nessuno: l’accento nella frase precedente è sull’espressione “con cognizione di causa”. Detto questo: non ne ho conosciuti. Questo non significa naturalmente che non esistano, ma credo che la loro percentuale sia veramente esigua. Chiunque è in grado, in Photoshop, di aprire il menu Immagine, selezionare Metodo e poi Colore CMYK dal menu Immagine. Alcuni sono anche in grado di utilizzare Modifica -> Converti in profilo… – ma questo non significa saper convertire con cognizione di causa. I pochissimi fotografi che convertono, in un modo o nell’altro, sono piuttosto spaventati dal concetto di GCR, se mai ne hanno sentito parlare, non sanno esattamente come curvare un file in CMYK se è necessario e soprattutto non sanno bene cosa farsene di questo strano canale denominato K. Questo non è un limite dei fotografi, ovviamente: è una semplice conseguenza del fatto che questa materia non dovrebbe essere di loro competenza. Nessun fotografo nella storia passata si è mai dovuto preoccupare troppo di convertire un’immagine in CMYK, esattamente come nessun fotografo, credo, ai tempi della pellicola effettuava in casa le scansioni delle proprie immagini con uno scanner a tamburo. Il software Adobe dedicato essenzialmente ai fotografi, e verso il quale moltissimi fotografi professionisti stanno migrando, è Adobe Photoshop Lightroom, noto anche semplicemente come Lightroom. Ebbene, Lightroom neppure prevede la possibilità di esportare un’immagine in CMYK, così come non può lavorare in CMYK (né esportare in quel metodo colore) Adobe Camera Raw. Quel mondo è essenzialmente RGB, ed è anche giusto a mio parere che RGB rimanga, perché le competenze necessarie a lavorare in CMYK non sono necessariamente prioritarie per un fotografo anche se possono risultare assai utili anche fuori da un flusso di lavoro di prestampa; a meno che, naturalmente, l’output del fotografo non sia così incentrato attorno a CMYK da suggerire l’opportunità che egli prenda il controllo del processo nelle proprie mani. In ogni caso, nelle schede statistiche dei partecipanti ai miei corsi anche i fotografi che dichiarano di avere una consistente mole di output finale CMYK, ovvero destinato alla stampa tipografica, dichiarano contestualmente di non effettuare le conversioni dei files in proprio, se non in pochissimi casi. Se volete sapere quanti sono per me “pochissimi”: circa il 2% fino a questo momento. Dubito però che si potrebbero etichettare come esperti di CMYK. Quasi nessuno di loro saprebbe spiegare la differenza tra le caratteristiche tecniche di una stampa su foglio piano o in rotativa, o tra offset e flessografia – e la loro ricaduta sulle impostazioni di separazione da usare in Photoshop. Ricordate: “con cognizione di causa”.

A questo proposito, ho un ricordo nitidissimo del grafico che realizzava i lavori per me nei tardi anni ’90. Aveva un piccolo studio e una fotounità di sviluppo delle pellicole che realizzava inviando i dati direttamente dal computer. Non utilizzava prodotti Adobe, ma Corel, e veniva dal mondo tradizionale della prestampa. Il suo problema non era CMYK: lui ci sguazzava in CMYK. Il suo problema era RGB, che all’epoca era un metodo colore minoritario. Il problema è che gli scanner piani, che si stavano affermando come alternative super-economiche a quelli a tamburo e che avevano permesso in primis la nascita di piccoli studi grafici indipendenti, fornivano scansioni in RGB e gli operatori dovevano giocoforza convertire in CMYK. Rivedo, come se fosse ieri, l’occasione in cui tirò una sonora sberla al suo monitor abbaiando: “questo [bip] di programma cambia i colori alla [bip] quando passa da RGB a CMYK!” All’epoca non sapevo bene cosa fosse il gamut, ma non lo sapeva neppure lui. Non era il programma che cambiava i colori: semplicemente, certi colori non potevano entrare in CMYK, e lui dava la colpa al programma. D’altronde, nessuno gli aveva insegnato cosa fosse RGB, quindi tutto questo era assai logico. Oggi, nel passaggio da RGB a CMYK si verifica il contrario: i fotografi sono abituati a pensare in RGB, e CMYK appare come una specie di terra incognita piena di insidie pericolosissime.

Ora, questa considerazione dovrebbe dare da sola una risposta alla domanda originale: dovremmo mettere mano a dei files dichiarati “chiusi”? La mia risposta è: no, se la modifica interviene su colore, luminosità, contrasto e via dicendo. Ma è: sì, se lo scopo è quello di ottimizzare l’immagine per l’output che ci serve. Ovvero, la preparazione e il controllo delle immagini fanno parte di quella che io chiamo prestampa, non della fotografia in quanto tale. Tolte le eccezioni rarissime dei fotografi che abbiano abbracciato e approfondito questo specifico ambito di lavoro, la conversione va fatta da chi si occupa di finalizzare il prodotto; e se è già stata fatta va controllata ed eventualmente rettificata.

Il bello della faccenda è questo: se voi mi inviate un file convertito in FOGRA39 standard e io constato che l’immagine avrebbe dovuto essere convertita con una variante del profilo (ad esempio, a GCR alto o basso) e opero questa riconversione, con ogni probabilità voi non lo saprete mai. Quella che io manderò in stampa sarà un’immagine che produrrà lo stesso risultato finale di quella che voi mi avete fornito… se le cose vanno bene. In caso di problemi a livello di stampa, la mia versione sarà invece con ogni probabilità migliore della vostra perché mi sarò tutelato da tali problemi con una manovra preventiva di difesa, esaminando l’immagine. E già che ci siamo, ho una brutta notizia da darvi: un buon numero di tipografie di fatto modifica le lastre rispetto a ciò che è contenuto nei vostri PDF e non ve lo dice. Peggio: gli operatori che producono le lastre, talvolta, non sono neppure al corrente del fatto che questo avvenga.

Repurposing e GCR

Questa oscura operazione a cui sto alludendo ha un nome: repurposing, o rigenerazione del nero. Ci sono ottimi motivi, dal punto di vista della tipografia, per metterla in atto: a volte è necessaria, ad esempio se noi forniamo un file preparato per la stampa su carta patinata e la destinazione effettiva è invece un quotidiano, che ha richieste diversissime sui limiti massimi ammissibili degli inchiostri. Altre volte, invece, è semplicemente un escamotage per ridurre i costi di stampa.

In breve, accade questo: una caratteristica unica di CMYK è la possibilità di formulare certi colori in diverse maniere. Ovvero, ci sono diverse quaterne di valori CMYK che esprimono di fatto lo stesso colore, a differenza di ciò che accade in RGB e in Lab, dove ogni terna esprime un colore ben preciso. I numeri che sto per darvi vanno presi come molto approssimati, perché variano molto a causa di stranezze come l’ingrossamento del punto e le impurità degli inchiostri, ma grosso modo le cose stanno così: in CMYK, se da un colore che abbia tutte e tre le componenti cromatiche sottraete un punto percentuale a ciascun inchiostro CMY (per un totale quindi di tre punti percentuali) aggiungendo un punto percentuale di K, ovvero di nero, il colore sarà (circa!) uguale. Facciamo un esempio reale, anche per dimostrare che la formula che vi ho dato è realmente approssimata: nel profilo standard FOGRA39, 50C40M17Y5K è percettivamente identico a 40C33M7Y22K: nel primo caso ho a che fare con una quantità totale d’inchiostro pari a 50+40+17+5 = 112 punti percentuali. Nel secondo caso la quantità si riduce a 102 punti percentuali. In pratica, ottengo lo stesso colore usando meno inchiostro. Non solo: lo ottengo utilizzando molti meno inchiostri colorati (risparmio qualcosa come 27 punti percentuali su CMY) in cambio di soli 17 punti percentuali in più di inchiostro nero. E l’inchiostro nero costa meno degli inchiostri colorati. Converrete che questa prospettiva di risparmio, a parità di risultati, possa essere assai allettante per una tipografia.

Quello che vi ho appena esposto è il principio del GCR, una sigla che sta per Gray Component Replacement. La componente grigia è quella formata da quantità (molto pressappoco) uguali di inchiostri colorati, e la sostituzione è quella che avviene aggiungendo un’opportuna quantità di inchiostro nero per compensare. È uno strumento potentissimo in fase di preparazione delle nostre separazioni, ma applicato alla cieca e in maniera indiscriminata al momento di andare in lastra, può avere effetti collaterali assai negativi.

Infatti: quando viene effettuato, nel caso, il repurposing? Quando il vostro PDF viene trasformato in lastre che serviranno per il lavoro di stampa (sporco, ve lo ricordo). Ovvero, nel momento in cui il vostro file viene dato in pasto al RIP (Raster Image Processor) il cui output è ciò che viene materialmente messo in lastra dal CTP (Computer-To-Plate). Ovvero, il repurposing viene semmai effettuato in tipografia, fuori dal vostro controllo. Quindi mi duole informarvi che a priori la garanzia che le componenti delle vostre immagini non verranno modificate è: zero.

Una tipografia seria, nel momento in cui vi presentate e chiedete che non applichino il repurposing al vostro lavoro, acconsentirà e rispetterà l’accordo. Anzi: nella mia esperienza il semplice effetto psicologico di avere un cliente che nomina la parola repurposing mette sull’attenti i responsabili: “questo è uno che ne sa, cerchiamo di stare attenti”. Ma la triste realtà è che non tutte le tipografie ottemperano alla richiesta, soprattutto quelle più piccole. Un consulente a livello nazionale che lavora con stabilimenti di stampa dal piccolo all’enorme mi ha candidamente informato che un modulo di repurposing è praticamente sempre presente nella catena produttiva. Ma non è affatto detto che chi opera con le macchine lo sappia. Traete le vostre conclusioni.

Morale: questi poveri files CMYK che arrivano da fotografi che non sono tenuti a sapere di CMYK, e non hanno nessuna colpa se non ne sanno; e che vengono poi stampati correndo il serio rischio di passare per macchine automatiche che faranno spesso polpette della separazione originale, mi sembrano una ragione più che sufficiente per considerare un no-brainer la seconda osservazione. Semplicemente è: infondata, non motivata e insostenibile. E questi files suggeriscono anche che pronunciare la parola “repurposing”, pesantemente infarcita da insalate di “no” davanti allo stampatore possa essere una buona idea.

E se questa presa di posizione, che conosco come una delle più sanguinose possibili nel campo delle arti grafiche, non mi metterà nei guai, credo di poter stare tranquillo. Al punto che chiudo qui la prima parte di questo articolo, riservandomi di discutere il terzo punto, che è anche il più delicato, nella seconda metà che spero di pubblicare a breve.

Grazie come sempre per avermi seguito fin qui, e a presto!
MO

22 commenti su “Un annoso problema di esportazione – pt. 1”

  1. Mi permetto di esprime la mia opinione riguardo alcuni argomenti:

    1. Due anni fa un esperto ci ha detto di inserire le immagini in RGB nel documento di InDesign e lasciare il compito della conversione all’esportazione in PDF. Tu stai sostenendo il contrario. Perché?

    LA COSA NON E’ DEL TUTTO INSENSATA, INSERIRE DELLE IMMAGINI RGB TI CONSENTE DI OTTIMIZZARLE PER PER LA STAMPA (FOGRA 39 O 29) QUALORA NON SI SIA SCELTO IL TIPO DI SUPPORTO SU CUI VERRANNO STAMPATE. QUESTO PERO’ PUO’ COMPORTARE DELLE VARIAZIONI CROMATICHE INASPETTATE, QUINDI E’ OBBLIGATORIO CONTROLLARE IL PDF CON LE DOVUTE SIMULAZIONI A VIDEO.
    DALL’ALTRO LATO DELLA MEDAGLIA ABBIAMO L’IMPORTAZIONE DI IMMAGINI GIA’ CONVERTITE; QUESTO (A MIO AVVISO) E’ UTILE UNA VOLTA STABILITI TUTTI I TERMINI DI PRODUZIONE DI UNO STAMPATO. HA COME VANTAGGIO IL COMPLETO CONTROLLO DEL COLORE SE TUTTA LA FILIERA MANTIENE DETERMINATE CARATTERISTICHE.
    TRA I 2 LATI DELLA MEDAGLIA VI E’ SEMPRE UNO SPESSORE, IN QUESTO CASO ESSO RAPPRESENTA L’ALTERNATIVA IN CUI SI ESPORTA UN PDF CON LE IMMAGINI RGB (PROFILO TAGGATO) E SI LASCIA FARE AL RIP DELLO STAMPATORE (SE E’ AGGIORNATO) IL REPURPOSING DELLE IMMAGINI IN MANIERA TALE DA OTTENERE DELLE SELEZIONI CHE RIPSETTINO LE ESIGENZE DI ENTRAMBE LE PARTI.
    SULL’ULTIMO METODO E’ MIA CONVINZIONE DI AVERE ALMENO UNA PROVA COLORE CERTIFICATA SE NON VI E’ MOLTA FIDUCIA NEL PROPRIO STAMPATORE.

    2. Alcuni fotografi ci mandano le fotografie già convertite in CMYK e noi non le dobbiamo modificare in alcun modo. Quindi possiamo usare solo quelle versioni.

    SOLITAMENTE LO FANNO CERCANDO DI FARTI UN FAVORE SENZA SAPERE COSA STANNO COMBINANDO… NON LO FANNO IN CATTIVA FEDE, PERÒ NON SI RENDONO CONTO DEI DISASTRI CHE COMBINANO

    3. Ci serve una ricetta universale e semplice per produrre un PDF che sia sempre valido e che non dia problemi alla tipografia.

    PURTROPPO NON VI E’ UN PDF UNIVOCO CHE VA BENE PER QUALSIASI UTILIZZO, QUI FA TESTO L’ESPERIENZA DI CHI CREA IL PDF SIA DI CHI LO STAMPA. VI SONO DEI CASI IN CUI IL CLASSICO PDFX1-A CREA DEI PROBLEMI ASSURDI, AGGIRABILI CON UN SETTAGGIO PARTICOLARE E PERSONALIZZATO.

    Intervenire o no sui files che ci vengono consegnati?

    CREDO CHE UN PROFESSIONISTA DELLA PRESTAMPA DEBBA SEMPRE CONTROLLARE I FILES ED ESEGUIRE O COMUNICARE LE MODIFICHE AL PROPRIO CLIENTE. COMUNQUE NON E’ TANTO UNA QUESTIONE DI “MODIFICA” QUANTO UNA QUESTIONE DI “COMUNICAZIONE” CON IL CLIENTE.
    ORA SI POTREBBE DISQUISIRE SUL TERMINE “PROFESSIONALITA'”

    Chiedo scusa se mi sono dilungato troppo, un saluto!

    1. Grazie Gianni (Saccardo), il tuo parere di “insider” è molto utile e autorevole. Di fatto supporti, integrandole, le informazioni e le opinioni che io ho espresso. La mia intenzione, ovviamente, non è di creare la solita sterile polemica in cui grafici, stampatori e fotografi si trovano su lati contrapposti e sparacchiano a caso tutti contro tutti, ma di mettere in luce quali sono le problematiche, annose e sempre identiche a se stesse, che si incontrano.
      L’osservazione sulla flessibilità del processo RGB-centrico (mixed / late binding) quando le condizioni di output non siano chiare a priori è molto importante e ti ringrazio di averla fatta. E non ci sono dubbi che l’early binding, ovvero la conversione RGB -> CMYK in Photoshop sia la procedura che dà più controllo di qualsiasi altra.
      Grazie mille e a presto!

  2. L’intervento di Gianni aggiunge quel punto di vista che rende l’articolo più bilanciato.
    Mi spiego: Marco sa come gestire le immagini in funzione dell’output (condizione più unica che rara nel panorama attuale) quindi fa un lavoro particolare potenzialmente migliore di quanto possa fare un sistema automatico generale come quello del cms Adobe (ad esempio). Quando si sa dove mettere le mani si può fare di tutto.
    Gianni riceve materiale da N clienti e probabilmente pochi sanno fornirgli dati cmyk già perfetti per quello che deve essere prodotto, quindi passa parte del tempo a generare e/o correggere separazioni fatte ad mentula canis.
    Adobe stessa incoraggia fortemente un flusso di lavoro con immagini Rgb con late binding, così da lasciare al reparto di prestampa il compito di separare con cognizione di causa, che poi io abbia trovato un sacco di stampatori che arbitrariamente hanno riseparato quadricromie già ad hoc generando non pochi problemi di stampa è un altro discorso…

    1. Grazie Tiziano (Fruet) della giusta osservazione. A quello che scrivi aggiungerei anche una considerazione che viene fatta raramente: la conversione RGB -> CMYK, fatta come si deve e nel caso non ci siano particolari problemi di gamut, è sufficientemente sicura. La conversione CMYK -> CMYK è parecchio insidiosa perché il nero a volte fa delle cose non propriamente simpatiche. Non so se la faccenda sia stata rettificata in anni recenti, ma ricordo distintamente un documento Adobe del 2006, forse 2007, in cui si affermava che la ri-separazione era sicura nel 95% dei casi. I problemi, naturalmente, si annidano nel 5% che sfugge alle maglie degli algoritmi. È anche vero che l’abitudine di non conservare un master RGB è errata, perché nessuno sa cosa potrebbe capitare domani a un lavoro: e se qualcuno decidesse di stampare lo stesso prodotto con specifiche diverse? Questo implicherebbe, necessariamente, una nuova separazione – manuale o automatizzata poco importa. E in questo senso avere a disposizione un quasi-esecutivo RGB può salvare tempo e denaro; e talvolta la vita.
      Alla fine comunque uno dei problemi principali è davvero la comunicazione trasparente attraverso la filiera di produzione. In certi casi ci si riesce, in altri… semplicemente, no.

  3. Io mi ritrovo in questi giorni a realizzare un impaginato con grafica impostata da un altro operatore grafico, immagini RGB fornitemi dal cliente. Devo inserire testi e immagini e adattare il tutto (abbondanze ecc.) per la stampa, che non farò io e nemmeno so chi farà.
    Quindi leggendo quanto sopra penso che mi atterrò al RGB -> CMYK generando un PDF da Indesign e che Dio ce la mandi buona. (?) Avevo inizialmente pensato di convertire le immagini in CMYK ma credo che lascierò perdere per non fare più casini del normale. Che ne pensate?

  4. Arthur, alla luce di quello che dici mi sembra la cosa più sensata in questo caso. In un certo senso, in un flusso di questo tipo potresti addirittura utilizzare la filosofia del “late binding”, ovvero esportare un PDF con dei files RGB non convertiti e lasciare che la cosa venga gestita completamente da chi stampa. In pratica, conversione in RIP.
    Questo ti scarica di una responsabilità, ed è una strada possibile a meno che chi stampa non richieda assolutamente qualcosa che sia già CMYK.
    Una cosa che potresti fare è questa: partendo dal presupposto che usciate su carta patinata, e che il processo di stampa sia coerente con la caratterizzazione FOGRA39, potresti su ogni immagine fare prima un Avvertimento gamma (cioè gamut, in realtà) e, se riscontri problemi, una Prova colori in Photoshop, senza convertire. Se vedi aree che si appiattiscono molto potresti provare a desaturarle selettivamente per recuperare un po’ di forma, e mandare quei files in stampa. Il risultato sarà in quei casi comunque migliore rispetto a quello che uscirebbe con il file originale, dal punto di vista del contrasto. Va da sé che non ti conviene fare questa operazione senza avvertire prima il tuo cliente, al fine di evitare problemi poi. E, come sempre, suggerirei una prova di stampa perlomeno delle parti più critiche.

  5. Ciao a tutti,
    mi sono imbattuto nell’articolo e volevo dare il mio apporto alla questione perché in un certo senso mi sento preso in causa…
    Faccio outing: quel consulente sono io 🙂
    Scherzi a parte, confermo quanto detto da Tiziano, da Gianni e praticamente da tutti gli operatori ed i tecnici di pre-stampa.
    Premetto che non mi reputo un esperto di pre-stampa anche se sono nato professionalmente in quell’ambiente e sopratutto conosco personalmente chi, in Italia, ha contribuito e contribuisce giornalmente alla definizione dei flussi di lavoro RGB per la stampa. Parlo, per citarne solo un paio, di chi ha seguito il passaggio al centro stampa di Mondadori ed RCS.
    Confermo tutto quello che ha detto Marco anche se mi ritrovo dall’altro capo della discussione: io suggerisco sempre e solo il flusso RGB e con rarissime eccezioni quello CMYK.
    C’è solo una cosa su cui non sono d’accordo, è possibile infatti lavorare in RGB tenendo sotto controllo l’output finale CMYK e quindi tutti i possibili problemi di fuori gamma. Con il soft-proofing in Photoshop è possibile lavorare “vedendo” quello che accadrà dopo la conversione in CMYK. Stiamo parlando di soft-proofing e quindi di percentuali di approssimazione intorno al 10% rispetto allo stampato e partendo da un sistema calibrato. Ci sono case-history importanti di editori che sono passati al soft-proofing in Italia e all’estero (Mondadori).
    Resta inteso, sopra tutto, che la correzione colore va fatta a prescindere e bisogna saperla fare bene.
    Per il resto credo che il problema vero per le aziende sia di trovare il tempo e le risorse (poche per la verità) per creare un sistema calibrato e creare dei profili colore personalizzati, non si può usare un workflow RGB senza sapere cosa si sta facendo.
    Non ho voluto, di proposito, tirare in ballo i vantaggi dell’RGB rispetto all’editoria digitale, il recupero dello spazio di archiviazione (-25% rispetto a CMYK), o del fatto che una gamma più ampia permette di lavorare meglio con immagini “difficili”, restano comunque fattori fondamentali in ambito produttivo.
    A presto

    1. Grazie mille, Andrea, per il tuo intervento che è ovviamente quello di una voce autorevole e calata nel mondo della produzione.
      Concordo con te sul fatto che i problemi di fuori gamma (o gamut) possono essere tenuti sotto controllo tramite il soft-proofing: nella mia risposta di ieri al commento di Arthur suggerisco proprio questo, ovvero l’intervento (in RGB) su immagini che si rivelassero critiche in questo senso.
      Quello che a mio parere ancora non si può fare, basandosi su un flusso di lavoro RGB, è tenere sotto controllo la generazione del nero, che in certi casi è cruciale se vogliamo mirare a un risultato di elevato livello qualitativo. Penso ad esempio ad ambiti in cui la neutralità sia un fattore assolutamente cruciale: i famosi cataloghi di rubinetti, ma anche di argenteria, certe forme di fotografia architettonica, e via dicendo. Le ben note vaghezze che possono verificarsi in stampa si possono, se non evitare, contenere molto scegliendo dei fattori di GCR opportuni al lavoro che si sta facendo. A me è capitato un numero molto elevato di volte di fornire immagini in “bianco e nero” in quadricromia e ritrovarmele poi di qualsiasi colore tra l’azzurrino e il magenta, con notevole disappunto. Se, per ipotesi, è necessario accoppiare immagini di questo genere con altre che invece necessitano di colori vivaci, o sono molto chiare di per sé, il GCR elevato che salva la vita dei neutri non è più adatto, e la separazione multiprofilo diventa una necessità.
      Parliamo ovviamente di casi in cui la cura del dettaglio è cruciale: non mi preoccuperei troppo di seguire questo genere di strada in pubblicazioni destinate a un pubblico limitato e, se mi è consentito, di bocca abbastanza buona. Penso che sia interessante però vedere come evolverà questa situazione in futuro, perché da un lato mi aspetto una presenza sempre più massiccia di flussi di lavoro basati sul mixed- e late-binding, dall’altra credo che la nicchia di chi, quando ha senso farlo, si ostina a lavorare in CMYK (come me! 🙂 ) potrebbe rimanere come una risorsa ancorché marginale nel contesto di certi contesti editoriali a target piccolo ma molto esigente.
      Grazie ancora del tuo pensiero!

      1. Ciao Marco,
        si quello che dici è estremamente corretto ed è quello a cui facevo riferimento come caso “raro”. In alcuni casi particolari, proprio come quelli che hai citato, lavorare le immagini in CMYK è la soluzione migliore proprio perché si può gestire meglio la generazione del nero. Io resto dell’idea che alla fine il ruolo del consulente sta proprio nell’esperienza e nella capacità di discernere le situazioni e dare una risposta mirata alle esigenze del cliente o del prodotto che si vuole veicolare.
        I flussi di lavoro non sono mai ne sbagliati ne giusti ma semplicemente efficaci. Volendo però generalizzare ovviamente ci si schiera 🙂
        A presto!

  6. Innanzitutto faccio ancora i complimenti a Marco per la splendida stesura degli articoli.
    Di forum e info tecniche ne ho lette a tonnellate (sia in italiano che in Inglese) ma raramente ho trovato articoli spiegati tecnicamente in maniera ineccepibile e soprattutto chiari.

    Dò il mio contributo a questo post facendo le mie personali considerazioni.
    Anche io, come Andrea Spinazzola, che tra le altre cose conosco, sono favorevole al flusso RGB con le dovute eccezioni come le immagini che vanno trattate in CMYK a causa di un GCR ad hoc, come spiegato da Marco.

    I problemi quotidiani a mio avviso sono anche altri. Ne cito alcuni…
    A mio avviso manca ancora la cultura (in un ampio numero di utenti) di cosa è un profilo, di cosa significa avere un’immagine con profilo e soprattutto di come impostare correttamente i programmi.
    Personalmente ho trovato e trovo ancora queste lacune sia nel giovane di 23 anni che nel professionista di 50.
    Su questi argomenti potrei scrivere un libro elencando tutte le cose strane che ho visto in 25 anni.
    Purtroppo la grande maggioranza degli utenti (per i casi che mi sono capitati, e sono molti) non ha ancora capito la differenza tra un file XPress ed uno InDesign.
    Una quota considerevole di utenti è nata con XPress 3.x, agli albori del DTP, per passare via via a XPress 4, 5 fermandosi poi in molti alla 6.5, tutte versioni che non avevano una reale gestione del colore. Nella 7 e 8 (ho fatto il beta tester per Quark per la valutazione di queste due versioni) la gestione del colore c’era ma erano più le cose che non funzionavano che quelle funzionanti.
    Moltissimi di questi utenti nel periodo XPress 5/6.5 hanno effettuato la migrazione ad InDesign.
    Quindi il lavoro si eseguiva, con XPress, come si è sempre fatto, in CMYK senza doversi preoccupare di una serie di concetti nuovi, molti dei quali non banali e non assimilabili (per una persona con pochissimo background) con un corso di mezza giornata.
    Ora con InDesign, l’utente si trova a gestire i concetti di profili e criteri abbinati al documento (cosa ignorata da molti a mio avviso) oltre al discorso di profilo incorporato nelle immagini.
    Per quanto riguarda InDesign, l’impostazione deve essere eseguita al concepimento del documento stesso, NON dopo aver impaginato 1.200 foto di un catalogo in un file che non considera i profili delle immagini importate.
    L’altra cosa devastante è che moltissimi utenti, a causa dell’ignoranza sull’argomento, settano InDesign con i criteri di gestione del colore (in Impostazioni Colore) settati come RGB: Disattivato e CMYK: Disattivato.
    Questa cosa provoca un disastro a livello “colorimetrico”.
    Ho provato a mettermi nella testa di chi setta una postazione in questa maniera.
    Probabilmente deve aver pensato: «la gestione del colore è troppo un casino…» oppure «Non so quale scelta fare quando mi compaiono i messaggi relativi ai profili mancanti/differenti..». Ultima ipotesi che l’installazione sia tasta fatta da un tecnico non troppo “tecnico”. Purtroppo ne girano.
    Quindi l’utente setta InDesign in maniera tale da disattivare (nella sua testa) la gestione del colore senza sapere che così facendo in pratica “distrugge” il documento.
    Questa cosa poteva essere tollerata quando Adobe presentò Photoshop 5 (non CS5) sconvolgendo inizialmente la vita di tutti noi (perlomeno fino a quando non si è capito bene come funzionava il nuovo mondo… cosa avvenuta con PhotoShop 5.5 e 6)
    Ma non può essere tollerata nel 2013 soprattutto se le persone sono dei professionisti (Art Director, Fotolito…)

    Tecnicamente esistono due condizioni di “distruzione” del documento e delle immagini.
    L’attivazione del famigerato checkbox “Chiedi prima di aprire” se unito alla scelta deleteria di Disattivare il profilo, provoca non solo lo sgancio dei due profili (RGB e CMYK) relativi al documento, che controllano la colorimetria degli oggetti nativi e delle immagini non aventi profilo, ma anche lo “sganciamento” del profilo di ogni immagine nell’impaginato.
    L’altra condizione é sempre con i criteri disattivi e con il checkbox “Chiedi prima di aprire” disabilitato (l’utente non riceve in teoria messaggi).
    Ma se gli spazi di lavoro impostati nel setup colore di InDesign sono diversi da quelli del documento che si stà aprendo, l’utente riceve una finestra di avviso che informa che i profili verranno sganciati con un altro bel checkbox denominato “non Mostrare più” che l’utente “non esperto” regolarmente abilita.
    Quindi un bellissimo documento generato con tutti i settaggi a posto (Profili e Criteri di gestione del colore), con N immagini RGB, ognuna con il suo bel profilo incorporato e “considerato” da parte di InDesign in fase di importazione dell’immagine stessa per la conversione in CMYK a valle, aperto con una delle due condizioni sopra citate genera un documento senza più gestione colore non solo sul documento stesso ma anche su tutto il contenuto inserito. Disastro…

    Un altro importante discorso è a mio avviso l’ottimizzazione immagini.
    Una volta, con i fotocolor, l’operatore dello scanner eseguiva una scansione in scala 1:1 rispetto al modellino mandato dalla redazione o dallo studio grafico. Al massimo faceva una scansione di un paio di centimetri di abbondanza.
    Tutto veniva quindi lavorato in scala 1:1 soprattutto per le maschere di contrasto.

    Ora con il file digitali siamo passati dai 3 milioni di pixel delle prime Reflex ai 36 milioni di pixel di una Nikon D800. Quindi un file di 7360 x 4912 genera un file normalizzato di 73,6 x 49,1 cm a 254 ppi.
    Molta gente, soprattutto le nuove generazioni, è abituata a mettere in pagina queste immagini iperdimensionate, tanto “InDesign macina tutto…”
    Si è perso il concetto basilare di lavorare in scala 1:1 che è uno dei mattoni della stampa.
    Il rovescio della medaglia è: lentezze spaventose nel maneggiare gli impaginati (la mia macchina è lenta…), soprattutto quando si deve abilitare l’Overprint Preview, spazi consumati in termini di MB/GB, qualità scadente dell’uscita in quanto l’engine PDF esegue un downsampling.
    Ma il downsampling non ridà contrasto (anzi il contrario) ad un’immagine A4 (per non dire A3) ridotta ad un 10 x 15 cm o meno. L’esempio classico di come NON si dovrebbe lavorare.
    Ricordo diversi anni fà, quando il PDF 1.4 non era ancora accettato da molti Rip, un pagina di pubblicità creata da una delle più famose agenzie di pubblicità italiane (che non citerò) che a causa di immagini iper-sovradimensionate mischiate a trasparenza non si riusciva assolutamente ad esportare in formato PDF/X-1a:2001. InDesign dopo “svariati minuti” andava in crash.
    La soluzione fu quella di esportare in PDF 1.4 e rasterizzare brutalmente in Photoshop.

    Altri argomenti riguardano l’esportazione PDF e le fonts.
    Anche qui si potrebbe scrivere un capitolo di un libro, ma questa email stà diventando purtroppo troppo lunga e non citerò nessun esempio.

    Questi, oltre a tutto quello citato da Marco Olivotto, sono alcuni grossi problemi che possono impattare in maniera elevata sui flussi di lavoro.
    Potrà sembrare strano ma quando i documenti escono da un’area di lavoro “controllata” a volte succedono le cose sopra citate.
    Per chi conosce bene gli argomenti, ormai è tutto abbastanza semplice. Profili, criteri, assegna o converti (anche qui grande confusione da parte di molti), PDF/X o PDF sono tutti concetti chiari.
    Ma gli argomenti non sono per niente semplici da “metabolizzare”. Personalmente, ai tempi di Photoshop 5 e 5.5 anche io (come penso molti di noi ormai con esperienza sugli argomenti) ho fatto fatica a capire molte cose. Ma ai tempi non c’era una riga di documentazione a riguardo, in Google…
    Ora è tutto molto più semplice se uno VUOLE imparare questi concetti 😉

    Nei miglioramenti su Adobe InDesign spero che finalmente Adobe implementi la possibilità di gestire le immagini a livelli di grigio (con profili intendo).
    Tecnicamente ci sarebbe la possibilità di controllare, impostando i parametri ad hoc nella sezione Impostazioni colore immagine di ogni immagine, un profilo con un particolare GCR.
    In questa maniera anche il limite delle immagini neutre (rubinetti, coltelli…) in RGB da convertire in CMYK sarebbe risolto.

    1. Stefano, ti ringrazio per questo commento esemplare con il quale concordo al 100%.
      Vorrei aggiungere un paio di cose, molto brevemente.

      La prima è relativa al fatto che nel 2013, quando viene installato Photoshop per la prima volta, le impostazioni di colore di default fornite da Adobe sono quelle del preset “Colore del monitor”. Ovvero, viene impostato il profilo RGB del monitor come spazio di lavoro RGB, US Web Coated (SWOP) v2 come spazio di lavoro CMYK, Gray Gamma 2.2 come spazio di lavoro per la scala di grigi. Il criterio di gestione dei profili colore è “Disattivato”, e in caso di profilo non corrispondente (e solo allora) il programma ti chiede che fare prima di aprire.

      Ora, diplomazia: queste impostazioni sono le più deleterie possibile. Non sono semplicemente errate: sono totalmente dannose. Il problema è che il 70% delle postazioni di lavoro rimangono in questa condizione perché nessuno si preoccupa di modificare le cose, semplicemente perché poche persone hanno capito di cosa si sta parlando.

      Ho già avuto modo di dirlo e lo ripeto: in ambito stampa offset, e questo è un feedback che arriva da Grafitalia 2013, molti operatori non vogliono neppure più sentir parlare di gestione del colore. E questo è, naturalmente, un disastro. Il motivo della loro allergia è che sono rimasti per anni in mano a tecnici che arrivavano con gli strumenti, profilavano tutto a prezzi assurdi e se ne andavano – ma senza che nessuno si preoccupasse di formare le persone su cosa effettivamente si dovesse fare. Questo a prescindere, naturalmente, dalle variabilità delle condizioni di stampa, dai DeltaE ridicolmente ampi (in certi contesti) degli standard ISO e via dicendo. Sottolineo doverosamente che questa situazione non era universale, ma certamente molto diffusa.

      Il risultato è stato: “gestione del colore? no grazie – facciamo a meno”. Il che significa, con una semplice sostituzione vocalica, “facciamo a mano”.

      Tutto il resto che citi è vita quotidiana, ed è un disastro. Posso assicurarti che una delle cose più difficili della mia vita è stato realizzare il seminario video sulle impostazioni colore di InDesign per Teacher-in-a-Box nella collana dedicata alla stampa in quadricromia. L’argomento era tratto proprio da uno dei seminari tenuti a Grafitalia 2013 e renderlo comprensibile a un operatore medio è un’impresa titanica: servono esempi, controesempi, eccezioni ed è facilissimo sbagliare.

      Il succo è che io ricevo ogni giorno PDF in cui il nero del testo è in 4C, non K = 100. Spiegare a un grafico che quando si va in stampa questa è una ricetta per la catastrofe, e che le cose andrebbero fatte così e non colà, è spaventoso. Io sono arrivato al punto di non assumermi alcuna responsabilità, e la declino per iscritto, sul risultato degli esecutivi prodotti da terzi che non conosco: anche perché in passato ho pagato salato per l’ingenuità di essermi “fidato” delle competenze conclamate e non verificate.

      Se questa sembra una posizione rigida, ammetto che di fatto lo è. Ma la situazione è esattamente quella che descrivi, se non peggio, soprattutto (ma non solo) nel sottobosco dei piccoli studi che non hanno il tempo e le risorse per formare il personale adeguatamente. Ci si prova, ma… questo abbiamo al momento. E non è affatto un caso che io, pur non occupandomi di gestione del colore, sia di fatto costretto a parlarne sempre, perché è una delle cose che viene richiesta di più. E lo faccio dal punto di vista pratico, senza fronzoli, perché credo che il primo passo sia onorare un profilo (o convertire con cognizione di causa), e che tutto il resto venga dopo. Comunque sia, è una pena: nel senso di sofferenza continua. E non si vede granché la fine di tutto questo, anche perché i produttori di software (e talvolta di hardware) certo non aiutano a fare chiarezza.

      Grazie ancora!
      MO

  7. Complimenti per la guida. Una domanda, ma da Indesign quando esporto in pdf, posso far convertire solo l’immagine ad es. da FOGRA39 ad una con una densità sotto al 300% senza doverlo fare prima in photoshop? spero di esser stato chiaro

    1. Certo, è possibile. In pratica, fai un repurposing: ti serve un profilo colore che descriva le condizioni di output che desideri e in linea teorica tutto va a posto. Mi raccomando, occhio ai neri K (ovvero non ricchi) di scritte, grafica e via dicendo. In generale, però, io non consiglio questa strada. Se il lavoro è importante, la conversione CMYK -> CMYK, ovvero il repurposing, è un passaggio assai critico e va preso con le pinze. Quello che intendo dire è che un conto è la teoria, un conto è la realtà. Dal punto di vista teorico, puoi anche pensare CMYK come una specie di RGB “invertito” con un canale del nero a rimorchio. In sala stampa, però, quel canale tra i piedi cambia le carte in tavola completamente. La conversione CMYK -> CMYK è possibile ma intrinsecamente più pericolosa di quella RGB -> RGB, che, problemi di gamut permettendo, è totalmente sicura. Questo è un punto dibattuto che solleva spesso polveroni sanguinosi, ma – insisto – la differenza è tra la nuda teoria e la realtà della sala stampa. Potendo, e dovendo fare a tutti i costi un repurposing, io lo farei immagine per immagine. Costa tempo e pazienza, lo so. Ma un lavoro sbagliato costa di più, e non mi fido al 100% delle macchine… 😉

  8. Grazie, seguirò il consiglio e continuerò a creare la conversione in photoshop.

    Comunque in Indesign quando faccio esporta in pdf/x e ad esempio uso intento output Isonewspaper26v4, e uso “Converti in destinazione (mantieni i valori numerici)” l’intensità dell’immagine non si abbassa sotto il 300%, diversamente se uso “Converti in destinazione”, però al quel punto cambiano i colori anche dei file vettoriali, testi e tutto quello presente nel documento. 🙂

    1. No, c’è qualcosa che non quadra. Puoi dirmi come sono messe esattamente le impostazioni colore di InDesign per CMYK? Grazie!

  9. Volevo inviare le schermate di Indesign, ma da qui non ho la possibilità di inviare allegati, forse con una email potrei risolvere.

  10. Francesco, attenzione che un conto sono le impostazioni di InDesign, un conto sono le impostazioni del documento di InDesign.
    Pensa a Photoshop. Tu puoi avere aperto un’immagine con un profilo X ma questa immagine non rispecchia le tue impostazioni colore. InDesign è identico ma la gente fà molta più fatica a capirlo.
    Non è detto che le cose coincidano, sopratutto se apri un documento che non hai generato tu.
    Ogni documento di InDesign si porta dietro due profili e due criteri di gestione. Quindi 4 informazioni. I criteri, se l’utente non ha attivi i messaggi, non sono riscontrabili in InDesign.
    Inoltre, per default (perlomeno in tutti i preset Adobe), il criterio di gestione del colore per le immagini in CMYK è mantieni valori numerici (ignora profili collegati).
    Quindi, a meno che tu abbia un documento con il criterio impostato per mantenere i profili su CMYK oppure tu abbia abilitato le gestione del colore per una o più immagini, InDesign non esegue repurposing sulle immagini in CMYK.
    Ma quando la esegue, i calcoli sono giusti e l’inchiostrazione totale viene abbassata in base al profilo di destinazione.

    1. Chiedo scusa se intervengo in ritardo – solo per dire che Stefano ha fatto un’ottima analisi, e lo ringrazio molto. Il problema è legato a come vengono impostati i criteri di gestione del colore nelle preferenze. Francesco, se ti può interessare, nella mia serie di seminari su CMYK per Teacher-in-a-Box (la serie dei 10 seminari brevi, non il corso sulla quadricromia) c’è anche un esame di queste combinazioni di profili “sballati” proprio basata sulle impostazioni colore. È oggettivamente una faccenda complicata o perlomeno complessa, ma alla fine torna tutto. Believe me. 🙂

  11. Forse, per risolvere definitivamente il problema sarebbe il caso di affidarsi ad un esperto del settore, in grado anche di spiegare nel dettaglio come inviare un file di stampa e soprattutto come preparalo nel modo giusto.

    1. Come non darti ragione? Il problema è pratico, però: da un lato esistono realtà estremamente attente alla qualità del risultato finale, che non può non passare per un flusso di lavoro corretto e controllato, che fanno del loro meglio per dare queste informazioni; dall’altro esistono (e non sono poche) realtà che ignorano completamente il problema, basandosi sul vecchio principio che in qualche modo alla fine se ne uscirà. E se ne esce, infatti: ma con risultati spesso sub-standard. Quindi, sì, ma buona fortuna a trovare l’esperto del settore che sia in grado e soprattutto che voglia spiegare bene cosa gli serve. Sembra assurdo, ma a volte è un problema molto serio.

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