Il primo articolo della serie “La teiera di Russell e Photoshop” presentata in questo post avrà probabilmente l’effetto di allontanare da questo blog le persone impressionabili. Dobbiamo parlare di un’entità occulta, potente e misteriosa nascosta nelle viscere del programma; un’entità che forse credete di non conoscere ma che conoscete anche troppo bene. Il suo nome causa un tremito, soprattutto per le implicazioni che contiene. Chi ha orecchie per intendere, intenda, perché il suo nome è: MAGIMASTRO.
Etimologia di un incubo
MAGIMASTRO deriva dal latino magi magister, ovvero il maestro del mago, ma anche, con un significato più arcaico, il comandante del mago. Maestro o comandante, poco conta: se qualcuno è in grado di insegnare qualcosa a chi già pratica la magia o addirittura di comandarlo è evidentemente in possesso di un temibile potere. Parlare di queste cose è pericoloso e suggerisco un preventivo rito di protezione: individuate un’immagine qualsiasi che ritragga Tiziano Fruet, toccatela a monitor con il dito indice della mano sinistra e pronunciate senza respirare la formula “Mater Suspiriorum, Mater Lachrimarum, Mater Tenebrarum – nolite lachrimas!”
Il rito garantisce due cose: che il Magimastro non divorerà dall’interno con il fuoco (ignis imaginis) le vostre fotografie, e che la teiera di Russell, notoriamente in eterno circolo tra la Terra e Marte, non uscirà dall’orbita precipitando in fiamme (ignis sideris) su di voi.
Il Misterioso Segno di ACOS
Per comprendere il ruolo del Magimastro ci serve un esempio. Nell’immagine a fianco possiamo vedere un istogramma molto semplice che descrive la distribuzione di alcune lettere del nostro alfabeto. L’istogramma descrive una parola composta dalle sole quattro lettere A, C, O, S. Quattro lettere diverse, una parola di quattro lettere: ogni lettera compare quindi una sola volta o, come si dice con termine tecnico, ha una sola occorrenza. Tutte le altre lettere sono assenti. Al volo: di quale parola si tratta? Qualcuno dirà CASO, qualcuno riterrà di candidare CAOS e di certo qualcuno avrà pensato COSA. Un toscano potrebbe suggerire ASCO, un nome diffuso dalle sue parti. Abbiamo almeno quattro parole di senso compiuto formate dalle quattro lettere che abbiamo scelto, e stiamo tralasciando eventuali sigle. In totale se ne potrebbero formare ventiquattro. Il conto è facile e divertente da scrivere: si prende il numero delle lettere e si calcola il suo fattoriale, indicato da un punto esclamativo dopo il numero: 4! = 1 x 2 x 3 x 4 = 24. Con dieci lettere a disposizione, ciascuna con una sola occorrenza, il numero di parole possibili aumenterebbe vertiginosamente: 10! = 3.628.800. Ma non è questo che ci importa: ci importa semmai il processo opposto.
Il significato di un istogramma
Andiamo a rovescio: se pronunciassi le quattro parole CASO, CAOS, COSA e ASCO, e vi chiedessi di disegnare l’istogramma di ciascuna, otterreste quattro istogrammi identici. Questo è il motivo per cui la domanda originale era posta male: non possiamo individuare una parola guardandone l’istogramma, perché il processo non è univoco. Parole tra loro diversissime possono produrre istogrammi identici. Questo perché l’istogramma è una rappresentazione statistica che rappresenta quante volte si verifica un certo evento o quante volte un oggetto ricorre all’interno di una serie, e via dicendo, ma non dice nulla sull’ordine in cui gli eventi si verificano, né sulla posizione dell’oggetto nella serie. L’istogramma visibile in questa sezione è più complicato del precedente, anche se il suo significato è sempre lo stesso. Che parola rappresenta? Se qualcuno tentasse di dire MOTORVOLTAICO, ci resterei un po’ male: ammesso che questo termine esista sarei più felice se in quelle righe verticali venissero riconosciuti il mio nome e il mio cognome. Però non lo posso chiedere, perché le combinazioni possibili delle lettere sono circa centotrenta milioni. Possiamo studiarlo fino a che diventiamo blu, ma non avremo mai alcuna certezza sul significato di ciò che lo ha generato.
Le distorsioni della fede
Vi starete chiedendo cosa c’entri tutto questo con il Magimastro. C’entra, perché in Photoshop esiste qualcosa che voi guardate, guardate, guardate con reverenziale timore e religiosa fede, certi che vi dirà tutto sulla vostra immagine. Lo guardate senza rendervi conto del potere che esercita su di voi, perché vi controlla: controlla la magia delle vostre immagini tramite la paura che è stata inculcata nelle vostre menti. La paura è la madre del senso di colpa, e il risultato netto è che a volte evitate di intervenire sulle vostre immagini per timore di fargli del male. Nulla di tutto ciò: voi siete i maghi delle vostre immagini e non potete farvi soggiogare da lui. Perché voi credete che si chiami ISTOGRAMMA, ma solo perché è stato così scaltro e diabolico da anagrammare perfino il proprio nome. In realtà, lui è il MAGIMASTRO. Le due entità sono la stessa cosa. Quindi il Magimastro, anche sotto falso nome, altro non è che l’ombra dei quasi infiniti anagrammi che potete fare con i vostri pixel. Può dirvi qualcosa, forse. Ma di certo non può dirvi cosa significano le vostre immagini.
Non può proprio. Tuttavia, «Du aber sitzt an Deinem Fenster und erträumst sie Dir, wenn der Abend kommt.», per dirla con Franz Kafka: «Ma tu siedi alla tua finestra e ne sogni, quando giunge la sera.» Più prosaicamente, io chioserei: è ora di finiamola.
Di fronte al nemico dell’Homo Photographicus
Questo è l’istogramma di un’immagine aperta in Photoshop, come lo abbiamo visto tante volte. La finestra si richiama dal menu Finestra -> Istogramma e il suo menu offre diverse opzioni, tutte molto intuitive. In questa configurazione ho scelto di mostrare l’istogramma della luminosità e dei tre canali RGB separatamente. Cosa significano i numeri che possiamo leggere tra la prima finestra e le altre tre? Sono valori statistici. Il primo, media, ci dice che sommando la luminosità di tutti i pixel e dividendola per il numero dei pixel otteniamo 102,72. Il secondo, deviazione standard, misura quanto i valori dei pixel tendono a discostarsi dalla media. Il terzo, mediana, indica la posizione del livello di luminosità che divide in due la distribuzione: metà dei pixel complessivi hanno luminosità inferiore o uguale a 120, in questo caso, mentre metà ce l’hanno superiore o uguale. Il quarto ci dice quanti pixel della nostra immagine vengono coinvolti nel calcolo. Il quinto, Valore tonale, indica la posizione in cui si trova il cursore del mouse, calcolata su una scala che va da 0 a 255: la freccia, in poche parole, cade nel livello numero 133, poco sopra la metà. Quantità: ci informa che 203922 pixel in totale hanno luminosità pari al valore tonale esplorato, 133. Percentile: misura la percentuale di pixel la cui luminosità cade entro il valore indicato del puntatore, 133. In pratica, il 67,86% dei pixel ha luminosità inferiore o uguale a 133. Livello cache: quando ha un valore pari a 1, come in questo caso, i calcoli vengono fatti sull’intera immagine, piuttosto che su un suo campionamento parziale (proxy). In pratica, significa che stiamo leggendo i dati più precisi possibile.
Confesso che la mia vita non è cambiata significativamente dopo i doni numerici del Magimastro, pardon, dell’istogramma. Volutamente non sto mostrando l’immagine sulla quale ho lavorato, e guardando l’istogramma tutto quello che si potrebbe dire è qualcosa del genere: “la gamma dinamica sembra estesa, perché tutte le luminosità sono coperte; il grosso dei pixel vive nei mezzitoni, parecchio si muove nelle ombre ma molto poco nelle luci, quindi l’immagine potrebbe essere un po’ scura…” La verità è che non abbiamo modo di capire se stiamo parlando di un ritratto, di un paesaggio o della fotografia di una molecola organica al microscopio. Che COSA, che CASO.
Il massacro della regolazione Curve
In vari forum e anche in qualche tutorial spesso si legge una specie di mantra ritmico: “Le cùr-ve dan-nég-giano l’im-mà-gi-né!” Se tutti lo dicono forse è il caso di pensarci su un attimo: nessuno vuole usare strumenti che sfasciano le immagini, ci mancherebbe. Prima di accettare in maniera acritica la mannaia citata nell’inno gregoriano “Curvas non uteris” (che in latino significa “Non userai le curve”, non altro) io vorrei però sbirciare dentro la famosa teiera di Russell. Oops, non possiamo: la teiera è dichiaratamente invisibile. Però, forse, se non possiamo guardarci dentro possiamo verificare se il suo contenuto produce qualche effetto.
Il mio piano scellerato
Prima considerazione: se voglio demolire un’immagine a colpi di curve, è meglio che quell’immagine sia codificata in uno spazio colore con un gamut ampio. ProPhoto RGB è un buon candidato, perché, come ho spiegato nell’articolo di presentazione della serie, se mi sposto di uno step in ProPhoto RGB il passo è lungo; se lo faccio in sRGB è molto più breve. Quindi, se vogliamo indurre variazioni pesanti, ProPhoto RGB sia.
Prima di tutto dobbiamo capire come e perché una curva può danneggiare un’immagine. Supponiamo per semplicità di avere un solo canale: in una codifica a 8 bit esso può assumere soltanto valori interi compresi tra 0 e 255, per un totale di 256 valori diversi. L’accento è sulla parola interi: quando creiamo una curva in Photoshop vediamo una curva di Bézier seguire docilmente il mouse e immaginiamo una linea continua. In realtà la continuità è un’illusione: la funzione di una curva è prendere i dati originali dell’immagine (che chiameremo Input) e trasformarli in qualcos’altro (che chiameremo Output). In termini matematici, una curva è una funzione che genera un output partendo dall’input, e può solo maneggiare e produrre numeri interi. I decimali possono apparire nei passaggi matematici interni, ma alla fine i valori vanno comunque approssimati a interi, in un modo o nell’altro.
Questa immagine riproduce il comportamento reale di una curva (molto ingrandita). La linea nera è ciò che vediamo sul monitor, ma in realtà stiamo giocando a una specie di battaglia navale: non abbiamo a che fare con valori decimali ma solo interi, e tutto ciò che una curva fa è mettere in relazione un valore intero con un altro valore intero, naturalmente sempre compreso tra 0 e 255. Il comportamento reale è descritto dai quadratini rossi che approssimano la linea nera. I numeri scelti per i livelli del canale sono arbitrari e servono solo a titolo di esempio, ma se un pixel ha valore 115, verrà trasformato in un pixel con valore 124, 116 diventerà 125, 117 diventerà 126. A 118, la prima catastrofe: l’approssimazione migliore è 128, non 127. Questo significa che il numero 127 non potrà mai apparire nell’immagine finale, perché nessun valore viene trasformato in esso. I due livelli successivi, 119 e 120, non ci danno problemi, ma subito capita la seconda catastrofe: entrambi i valori 121 e 122 si traducono in 131. Una variazione presente nell’originale scompare per colpa della curva.
De profundis
Il Magimastro è già in agitazione: i suoi occhi traboccano di lava, gli zoccoli iniziano a percuotere il suolo e l’immagine viene invasa da una nuvola di zolfo. È un disastro assoluto! Il livello 127 nell’immagine finale resterà completamente vuoto, mentre il livello 131 conterà statisticamente molti più pixel di quanti dovrebbe, perché riceve i contributi da parte di due livelli dell’immagine originale, non uno solo. Questo fenomeno ha un nome aborrito: posterizzazione. Si manifesta tramite una delle scene più orrorifiche che possiamo concepire: il volto del Magimastro si deforma, generando il temutissimo istogramma a pettine. Vuoti in livelli come il 127mo, picchi fasulli in livelli come il 131mo. In questo modo, ciò che abbiamo di più di prezioso nell’immagine va perduto: alcune variazioni si esasperano perché mancano i pixel a certe luminosità, altre si appiattiscono perché certi pixel perdono la loro naturale variazione. Le nostre fotografie, i nostri ricordi… tutti quei momenti andranno perduti come lacrime nella pioggia.
Ma anche no
Vediamo? Ho intenzione di massacrare un’immagine oltre ogni limite realistico. Sono naturalmente contro il sabotaggio delle fotografie, ma la lotta contro il potere del Magimastro dev’essere senza esclusione di colpi.
In figura vediamo un’immagine con un decente range dinamico affiancata a una versione sufficientemente devastata. L’originale è ProPhoto RGB a 8 bit, convertito poi in sRGB per il caricamento sul web; potete cliccare sull’immagine per vederla a risoluzione più elevata.
La curva responsabile di tanto disastro è questa. Il punto con valore Input = 0 viene spostato in modo da dare come Output = 64, quello con Input = 255 scende fino a dare Output = 192. In questo modo si perdono lungo la strada 128 livelli di luminosità su 256: il valore più basso in ciascun canale sarà 64, il più elevato 192, con una variazione massima pari a 192 – 64 = 128. L’immagine non ha più 8 bit reali, ma soltanto 7, dal momento che 27 = 128. Metà dei livelli di luminosità sono scomparsi per sempre.
Se non ci crediamo, è sufficiente osservare l’istogramma e il suo vuoto cosmico nelle ombre come nelle luci: tutto è compresso attorno ai mezzitoni. Ovvero, in pratica, l’immagine non c’è più, rispetto a quello che era il suo stato originale.
Che speranze abbiamo di recuperare l’informazione perduta? Teniamo presente che stiamo parlando della sparizione in via definitiva di metà dei dati originali. L’unica possibilità è cercare di riaprire la gamma dinamica con una curva esattamente simmetrica a quella applicata prima, ma ci aspettiamo posterizzazioni soprattutto nel cielo, che è l’oggetto omogeneo più esteso che compare nell’immagine. Vediamo.
Nella parte superiore dell’immagine riprodotta sopra, vediamo una sezione dell’originale. Sotto, la stessa sezione sottoposta a una curva estrema quanto quella vista prima. I valori con Input = 64 vengono riportati a Output = 0, quelli con Input = 192 a Output = 255. Osservando l’immagine che si ottiene, sopra, non sembra che ci siano artefatti particolari. Non si vede nulla in nessun tipo di confronto diretto che io sia riuscito a inventare. Sappiamo però che l’occhio si inganna facilmente, e quindi è il caso di ricorrere a strumenti seri, scientifici, matematici. Innanzitutto: come siamo messi con gli istogrammi? E che differenza esiste tra le due immagini, l’originale e quella sottoposta al doppio set di curve da guerriglia che abbiamo creato? Andiamo in ordine.
A fianco, l’istogramma dell’immagine originale, sopra, e quello della versione sottoposta alle due curve, sotto: il “pettine” è visibilissimo. Davanti ai denti del pettine molti operatori iniziano a tremare più che davanti a quelli di una tigre: la cosa è motivata o è il solito Magimastro che sta compiendo incantagioni, giochi bestiali ed ereticali sulla nostra mente? Più prosaicamente: sono significativi gli effetti che vediamo in quella che altro non è che una rappresentazione statistica, anche piuttosto grossolana, dei livelli di luminosità dei pixel della nostra immagine? Il confronto delle due versioni inserite sopra sembra provare di no. Ma la loro differenza? Nella figura che segue, l’immagine doppiamente curvata è stata applicata su un livello sopra l’originale posto in metodo di fusione Differenza. Unione dei livelli e curva con Input = 8 e Output = 255: un’amplificazione della differenza di un fattore 32 rispetto all’originale.
Nell’originale, in ProPhoto RGB, non sono riuscito a trovare nessun pixel che mostri una differenza superiore a un punto in ciascun canale tra l’originale e l’immagine prodotta dalle due curve.
Piuttosto, tenete la macchina diritta
L’immagine originale è piuttosto diritta e non ha bisogno di essere raddrizzata. Ma, mi chiedo, che effetto le farebbe una rotazione di 1° in senso antiorario e poi di 1° in senso orario? Ci aspettiamo che sia di gran lunga inferiore a quello che una curva può fare: ci preoccupiamo tantissimo degli effetti collaterali di curve assai più blande di quelle utilizzate qui, che probabilmente non avrete mai usato – o rarissimamente – negli interventi su immagini buone; ma non abbiamo certamente paura di raddrizzare un orizzonte. Detto, fatto: duplicazione del livello originale, rotazione in un senso e poi nell’altro. Metodo di fusione: Differenza. Non vi mostro l’istogramma ma fidatevi: nessun pettine, è praticamente identico all’originale. Questo promette bene, no? Ora, sull’immagine della differenza, la stessa curva applicata alla differenza precedente, che enfatizza la variazione di un fattore 32.
No, non è un errore. È veramente ciò che succede. Alcuni pixel dell’immagine, senza amplificazione alcuna, presentano differenze enormi, anche vicine a 30 punti in ciascun canale. Talvolta, pari a circa 30 punti in tutti e tre i canali: fino a trenta volte più grandi che nel caso della doppia curva. Non si tratta più di rumore casuale come nella differenza precedente, ma di qualcosa che si modula sui bordi degli oggetti rappresentati. In realtà esaminare le differenze non serve neppure: basta guardare le immagini da vicino. Al 200% di ingrandimento, si presentano così:
Non serve neppure discutere: la perdita di dettaglio dovuta alla doppia rotazione è visibilissima. Basta guardare le foglie.
Se ancora non siamo convinti…
I due istogrammi che vedete a fianco non mostrano la luminosità, ma il composito dei canali RGB. Il primo è quello che fa rabbrividire qualsiasi fedele seguace del Magimastro: e se avete seguito fin qui siete in grado di indovinare che si tratta di quello relativo all’immagine maltrattata con la doppia curva. Non è “a pettine”: *è* un pettine, a tutti gli effetti, perché mancano i pixel nei livelli dispari. Se alla cieca doveste scegliere tra questo e quello sottostante, quale pensate descriva l’immagine “migliore” e meno danneggiata? Ovviamente il secondo: non è perfetto, ha dei picchi sgradevoli, ma almeno è “pieno”. Ci sono dei valori che nell’altra immagine mancano totalmente e quindi l’immagine sarà più omogenea e le transizioni più morbide. Vero, ma c’è un problema: il secondo istogramma è quello dell’immagine curvata successivamente sottoposta alle due rotazioni descritte sopra. La perdita di nitidezza e dettaglio che ne deriva è identica a quella vista nel confronto dei dettagli delle due versioni (originale e ruotata) nella figura precedente: eppure l’istogramma è “migliore”. Siamo ancora davvero sicuri che un istogramma più omogeneo descriva un’immagine migliore? Per ripettinare un istogramma a forca, più che a pettine, si fa presto: basta sfocare in qualche modo l’immagine (l’effetto di una rotazione è quello) e tutto va a posto. Ma è quello che vogliamo?
Conclusioni
Superato un certo limite le cose naturalmente cambiano. Qui a fianco vediamo come si riduce il cielo in un’immagine trattata con due curve analoghe a quelle discusse sopra, ma più ripide: queste curve buttano via non 128, bensì 192 livelli di luminosità su 256 in ciascun canale: il 75% delle informazioni originali se ne vanno, come pecore in mezzo ai lupi. Questo è il cielo in un’immagine ProPhoto RGB a 6 bit effettivi, e la posterizzazione è evidente: non si può negare il problema. Ma per ottenere un risultato come questo abbiamo dovuto applicare una curva così ripida che probabilmente non ha un corrispondente nella correzione del colore se non ogni 1.000 immagini, o meno. Una curva così può essere applicata a una maschera, semmai, ma che serva su un’immagine è veramente difficile; e in quel caso si tratta di un’immagine così compromessa in partenza che un flusso di lavoro personalizzato è d’obbligo.
La curva in questione è questa; e, ricordo, siamo in ProPhoto RGB, uno spazio colore in cui sembra che i pixel esplodano solo a guardarli. Per giunta, siamo a 8 bit. Se ci trovassimo in questa situazione la soluzione sarebbe semplice: convertire l’immagine da 8 a 16 bit e procedere. La posterizzazione di per sé diventerebbe un ricordo. Ma è un caso limite: un’area omogenea di colore critico (ovvero con una grossa componente nel canale G, che è quello che dà il più grosso contributo agli spostamenti di luminosità), in un’immagine ad ampio gamut, sottoposta a una curva che cerca di salvare una versione deliberatamente bombardata con il napalm. E se fossimo in sRGB, per esempio, la posterizzazione sarebbe visibile, ma sensibilmente meno.
“Curvas non uteris” non è quindi il mio inno. Nel colore, esattamente come nella vita, i problemi vanno contestualizzati e misurati, e questo articolo suggerisce che sia molto meglio esaminare l’immagine che l’istogramma: perché l’istogramma suggerisce cose che semplicemente non sono vere. Guardiamolo, ma ricordando che non è affatto la divinità che ci hanno fatto credere: è una semplice statistica. D’altronde, cosa ci aspettavamo? L’istogramma parla con la voce del Magimastro. E io al Magimastro non credo affatto, perché ho smascherato il suo travestimento molto tempo fa.
Buona digestione del tè di Russell, e a presto!
MO
considerazioni:
se bisogna utilizzare la “regolazione curve”, è meglio utilizzarlo una volta sola per non moltiplicare le posterizzazioni ?
A me piace molto il comando “luci ombre”. Un quarto dei casi mi migliora le immagini. Ma è distruttivo come il comando “curve” ?
Ugo, non c’è una prescrizione generale. Ti faccio un esempio: in RGB a volte è comodo (e a volte inevitabile) utilizzare due livelli di curve, uno in metodo di fusione Colore e uno in Luminosità, per modificare separatamente appunto il colore e la luminosità. Se sovrapponi due livelli di regolazione con curve assolutamente estreme, ovviamente vai a cercare guai: la posterizzazione può diventare evidente; ma anche no – dipende dall’immagine. Se in questa immagine dell’articolo togli il cielo, buona fortuna a vedere una posterizzazione (in ProPhoto, a 8 bit!) anche nel caso della ridicola curva di fine esempio, quella che uccide il 75% dei dati.
La verità è che correzioni del genere sono rarissime, nel mondo reale, e io credo che se si usano due, o anche tre set di curve decentemente pensate e non estreme sia pressoché impossibile vedere una posterizzazione, tranne alcuni casi.
Il problema è che qualsiasi regolazione di Photoshop, da Luminosità/Contrasto alle più raffinate, altro non è che una funzione che prende numeri interi, li macina, e sputa numeri interi. Non è distruttiva: a meno che non consideriamo “distruttivo” un cambiamento che magari è invisibile ma esiste numericamente. Vedi a proposito il postulato dell’articolo 0 della serie. Un profilo colore è una funzione, che per giunta riduce spesso la profondità in bit reali del monitor: ma nessuno si sognerebbe di dire “non profiliamo il monitor, teniamolo sballato, perché quello che conta sono i bit”. Quello che conta è ciò che si vede, alla fine.
La mia posizione è semplice: io non sto dicendo che dobbiamo togliere gli istogrammi da Photoshop. Hanno una loro utilità, a colpo d’occhio. Ma venerarli come divinità e far decidere a loro la qualità di un’immagine è semplicemente ridicolo. Dobbiamo guardare l’immagine e magari ogni tanto tenere un occhio sull’istogramma. Se vediamo stranezze, esaminiamo l’immagine. Si vedono problemi? Sì – e ci fermiamo. Oppure, no – e allora andiamo avanti sereni come mai prima.
Quindi, riassumendo, nessuna regolazione e nessun comando per me sono distruttivi: almeno fino a che non distruggono l’immagine. Se quello che otteniamo è migliore dell’originale, è semplicemente migliore.
Magnifico: fantasia, rigore scientifico, logica, buon senso e tanta didattica in un articolo che parla di photoshop. Complimenti, Marco, nonostante ti segua da molto, la tua bravura riesce ancora a sorprendermi.
Grande Marco….è per questo che usiamo gli oggetti avanzati…
Articolo decisamente potente, liberatorio oserei dire…
Scusa, Marco, avevi dei sassolini nelle scarpe? 🙂
Pregevole esposizione, btw, scorrevole e ricca di spunti di riflessione. OMG! Le lezioni aumentano! 😉
Io ho sempre pensato che quando uno decide di “correggere” uno scatto e s’incammina in quel flusso di lavoro della post produzione di un’immagine, rinnova il parco pixel allocandolo in modo più convincente secondo certi parametri assunti e, come dici tu, alla ricerca di un miglioramento dell’originale. Non penso ad un restauro, ma forse più a un “ripensamento” del pattern. Una variante.
Sassolini nelle scarpe? No. Sono semplicemente un po’ stufo di leggere post su siti anche autorevoli che insegnano come fare questa o quella cosa, inducendo magari cromatismi di tipo WOW! nelle immagini (che se a uno piacciono, per carità, va benissimo) a colpi di spennellature micidiali per poi concludere con frasi sull’onda di: “dovremmo fare una serie di considerazioni su quanto sia importante avere un istogramma ben messo!” Tutto ok, bene, chiaro. Ma allora perché non dimostriamo quello che diciamo? Una delle cose che ricordo maggiormente del mio primo giorno (davvero) di università fu ciò che disse la mia insegnante di geometria: “qui dentro noi dobbiamo dimostrare tutto ciò che affermiamo”. Semplicemente perché, per banalizzare, dichiarare l’omicidio se il cadavere non è visibile non è poi questa grande idea. Prima troviamo un cadavere e poi ne parliamo. 🙂
Sono d’accordo sul ripensamento del pattern. E ne esistono infiniti, per fortuna. No, infiniti no, in realtà, ma abbastanza da essere di fatto assimilabili a una serie di alternative che non finisce più.
Grazie Antonio!
grazie Marco
stanotte incubi……..
maghi….teiere……curve……pettini….rastrelli……caos….isto..? grammi…. ma l’incubo più orribile è stato ….il magimastro motorvoltaico, ma a quel punto un angelo mi ha svegliato, era un angelo con le curve …..ma che curve !!!.
Era un sogno anche quello.
Complimenti maestro, davvero interessante.
Mi permetto di aggiungere una piccola postilla al tuo discorso:
Quando si lavorava (o si lavora tutt’oggi) con scansioni provenienti da diapositive e in special modo ad alto ISO, il diagramma a pettine è praticamente una costante. Quindi il Magimastro è da sempre un cacciaballe 😉
Semplicemente fantastico! Non di facile lettura, magari, alla prima occhiata, ma fa molta chiarezza, di cui avevamo grande bisogno. Bravo 😉
Ciao Marco,
mi ha stranizzato vedere posto l’esempio della rotazione. Mi chiedo come sia possibile che l’immagine cambi anche di una sola virgola? la rotazione non dovrebbe essere un cambio di coordinate? quel pixel li con quelle caratteristiche va la e poi torna indietro!!!! cosa ne fa cambiare la sua natura (luce e colore)?? devo forse concludere che anche una semplice traslazione possa creare tanti danni?
forse l’osservazione non è pertinente con il senso dell’articolo ma io del magimastro mi sono sempre fidato molto ma molto poco.
DioRa, ops…odiar, ops…rodai, ops….radio……insomma
Dario
Doria, la risposta è Doria. 🙂
Scherzi a parte, no, è normale che una rotazione faccia questo. Il tuo ragionamento sarebbe corretto se avessimo un continuo di pixel, ovvero infiniti punti infinitamente piccoli. In realtà abbiamo caselline in una griglia rettangolare che non sono in grado di sovrapporsi esattamente alle loro vicine, in una rotazione: è obbligatorio interpolare, e la differenza viene fuori da lì. In una traslazione è diverso, almeno fino a che consideriamo traslazioni “quantizzate” in pixel. Se poi uno volesse fare una traslazione in unità lineari, ad esempio millimetri, e questa traslazione non fosse esprimibile come multiplo esatto di pixel, forse il problema potrebbe nascere. Personalmente, piuttosto che interpolare, io sceglierei di approssimare la traslazione e mi vincolerei a muovermi di uno step alla volta sulla griglia, senza sottomultipli. Ma in una rotazione no, è davvero impossibile, tranne in un caso, che è quello banale della rotazione multipla di 90°. Non ho provato a dire il vero, ma quella dovrebbe essere del tutto non distruttiva. Però sì, fa effetto, e parecchio. E la nitidezza salta in aria con poco e nulla. Vorrei riscriverne a breve.
grazie
dorai
Vedi ben di fare il backup del blog che queste cose non si devono perdere come lacrime nella pioggia neanche se arriva Sauron in persona. Aug, e complimenti!