Un campionato di calcio allargato
Un mio compagno di liceo era solito citare la gerarchia dei livelli del campionato di calcio italiano: «Serie A, Serie B…» La parte interessante era il finale: «…Scapoli contro ammogliati, Rissa di quartiere.» Gli mancava necessariamente una categoria: “Coloristi contro Calibrazionisti”, che andrebbe naturalmente aggiunta in coda a tutto.
Scherzi a parte, ho deciso di scrivere questo articolo dopo una serie di recenti discussioni alle quali ho assistito, che in realtà proseguono da anni, nelle quali si contrappongono le due fazioni. Mi è stato da diverse parti suggerito di scriverlo, e confesso che non è il compito più semplice del mondo. Prevedo che possa diventare uno degli articoli più popolari e contemporaneamente più impopolari di questo blog. Popolare perché l’argomento è certamente “caldo”; impopolare perché l’argomento è certamente “caldo”. La ripetizione non è un errore di battitura.
A scanso di equivoci, parto con una serie di precisazioni che devo necessariamente fare.
- Non mi considero in alcun modo un profondo esperto di gestione del colore. La conosco quel tanto da poterla applicare, ne ho studiato i principi, ma non è il mio campo di approfondimento.
- Da questo deriva che non ho alcuna intenzione di proporre il contenuto di questo articolo come una qualche tavola della legge (Law-Up Table?). Propongo soltanto la mia visione delle due discipline. L’unico scopo di questo articolo è in sostanza quello di chiarire la mia posizione attuale, che potrebbe naturalmente modificarsi in futuro.
- Il pittoresco termine calibrazionista è preso di peso da un neologismo coniato da Dan Margulis e non si riferisce in generale a chi si occupa di gestione del colore, che è una nobile disciplina, ma a chi abbia una fiducia così ferma e incrollabile nei numeri da arrivare a ignorare alcuni fatti fondamentali. Il termine non va inteso in senso dispregiativo.
In Italia si tende spesso a confondere le due discipline denominate correzione del colore e gestione del colore. Credo che questo sia dovuto innanzitutto a una scarsa cultura in entrambi i campi nonché a un problema linguistico: gestione e correzione sono due parole vagamente assonanti, a differenza dei loro equivalenti anglosassoni, rispettivamente management e correction. Cerco quindi di dare due definizioni semplici ma plausibili delle due discipline.
Un tentativo di definire
La gestione del colore è un insieme di tecniche, supportate da precisi modelli teorici, che cerca di fare in modo che un colore rappresentato su dispositivi diversi sia coerente tra un dispositivo e l’altro. Naturalmente le possibilità di successo dipendono dalla natura e dalla qualità dei dispositivi: non è pensabile, ad esempio, che un monitor economico possa raggiungere le prestazioni di un monitor di fascia alta esattamente per lo stesso motivo per cui un’utilitaria non può raggiungere una Ferrari lanciata in autostrada. La gestione del colore ha quindi lo scopo di minimizzare le differenze nei limiti del possibile. Per fare questo deve effettuare delle conversioni dell’immagine quando la stessa viene inviata a ciascun dispositivo. Queste conversioni vengono fatte sulla base di profili colore, ovvero tabelle di dati che descrivono il comportamento di ciascun dispositivo in condizioni predefinite.
La correzione del colore è più difficile da definire, perché è più evanescente. Mi fermo deliberatamente alla correzione di immagini statiche digitali, senza neppure entrare nell’ambito ancora più complesso del cosiddetto color grading del cinema e del video. A livello base, si può dire che la correzione del colore è un insieme di tecniche volte a modificare i valori cromatici di un’immagine originale rendendola più simile a ciò che avremmo visto se fossimo stati presenti sulla scena.
Se conoscete l’espressione inglese to open a can of worms, l’ultima frase del periodo precedente apre non un barattolo, ma un’intera piscina di vermi: ovvero, è esplosiva di per sé. Certamente qualcuno si starà chiedendo se è possibile definire con assoluta precisione la frase “ciò che avremmo visto se fossimo stati presenti sulla scena”. La visione è identica da individuo a individuo? La memoria riproduce fedelmente ciò che il sistema visivo ha sintetizzato quando abbiamo osservato la scena? Possiamo parametrizzare in maniera precisa ciò che il sistema visivo fa e costruire un algoritmo che trasformi ciò che un sensore digitale ha catturato in ciò che noi avremmo visto? La risposta è no. Quindi, non possiamo basarci in maniera univoca e inattaccabile su delle formule. E questo, naturalmente, causa non pochi problemi.
Vorrei però fare un esempio pratico. Osserviamo le due versioni di una scena invernale.
Non credo che ci siano dubbi: un’immagine scattata sotto una nevicata in pieno giorno è più credibile se la neve appare mediamente neutra. La dominante ciano della prima versione può anche essere interessante dal punto di vista interpretativo, ma qualunque sistema visivo sano avrebbe percepito qualcosa di più simile alla versione corretta, non alla prima. Se lo scopo (e sottolineo: “se”) è quello di avvicinarsi alla percezione, la seconda immagine vince. Se è invece quello di dare un’interpretazione alla scena, non necessariamente.
La differenza essenziale tra correzione e gestione del colore è tutta qui. La correzione del colore si preoccupa dell’aspetto dell’immagine originale; riscontra la presenza di una dominante (e per fare questo si basa sull’esperienza: la neve è bianca, non color ciano) e dopo avere effettuato una valutazione della sua intensità propone delle tecniche per rimuoverla. La gestione del colore non ha a priori alcun problema con una neve cianotica, perché la sua preoccupazione è riprodurre correttamente quella dominante sul mio monitor, sul vostro e magari anche su due diverse stampe – una realizzata con una stampante da scrivania e una con una macchina da stampa offset.
Il limite sta nella domanda
Questo non significa che la gestione del colore non sia fondamentale. Anzi, è il contrario: un monitor calibrato e ben profilato è un punto di partenza importante per avere una visione accurata dei colori (e della luminosità, che viene troppo spesso dimenticata). Proviamo però a ipotizzare che il mio monitor sia molto malmesso e abbia la tendenza a mostrare tutti i colori un po’ virati verso il rosso. La visualizzazione delle due immagini proposte potrebbe forse far vincere la prima versione: la tendenza al rosso tenderebbe a neutralizzare la dominante ciano, e il risultato sarebbe che vedrei la fotografia “sbagliata” più neutra della versione corretta. Giusto?
La risposta più vicina al mio sentire che posso dare a questa osservazione è questa: 無. Si tratta di un carattere cinese tradizionale soggetto a varie pronunce, la più nota delle quali è mu. “Nessuno” o “senza” sono approssimative traduzioni di questo termine. Quella che preferisco è quella citata da Robert Pirsig nel suo libro Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. In inglese Pirsig dà al termine il significato unask the question. Questo non è “non chiedere”, non è “non fare la domanda”. È piuttosto – “s-domanda la domanda”. Ovvero, la domanda è posta male, e come tutte le domande poste male può condurre a un rovello da cui non c’è uscita. È posta male perché non tiene conto del fatto che i nostri occhi si adatteranno alla tendenza dello schermo a mostrare tutto troppo rosso, almeno entro certi limiti. Dopo un po’, osservando un colore neutro, lo vedremo praticamente “bianco” anche se un colorimetro ci direbbe che è “rossastro”. Il concetto stesso di bianco è vago, e basta pensare al fatto che esistono diversi punti di bianco standard definiti da cromaticità diverse. Un illuminante che abbia un punto di bianco D50, ad esempio, appare più caldo di un illuminante che abbia invece un punto di bianco D65. Le due sigle corrispondono a diverse temperature colore della luce emessa, ma percepiamo sempre un “bianco” anche se con caratteri diversi. Una fotocamera assolutamente no, e lo sa bene chiunque abbia scattato una serie di immagini in parte in pieno sole e in parte in ombra senza adattare le impostazioni della temperatura colore. Le seconde sono invariabilmente più bluastre, in maniera assai più significativa di quanto il nostro sistema visivo veda quando passiamo dal sole all’ombra.
Attenzione, non sto in alcun modo sostenendo che calibrare e profilare il monitor sia inutile: io stesso lo faccio con tutti i miei dispositivi, in media ogni due settimane. Sto sostenendo che limitarsi a calibrare e profilare il monitor non è sufficiente. È molto diverso.
Il problema nasce quando iniziamo a dare un significato troppo assoluto ai numeri. Questo è corretto, in linea di principio: come fisico non solo sono affezionato, ma ho la necessità di riferirmi a qualcosa di misurabile e ripetibile. Se non fosse così, dovrei rassegnarmi al fatto che una palla da tennis potrebbe cadere ogni volta seguendo una traiettoria diversa e non la parabola che le leggi di Galileo prevedono – e addio coerenza del mondo percepito. Il mondo reale diventerebbe ingestibile, vago e schizofrenico come il mondo interiore dei pensieri, che possono andare dove vogliono. Possiamo immaginare una palla da tennis che levita da sola sfidando la gravità, ma non possiamo portarla nel mondo reale, sul nostro pianeta. Benvenuti i numeri, quindi, che descrivono in maniera meccanicistica e ripetibile la nostra esperienza. Attenzione, però, a non dare loro troppa importanza. Facciamo un esempio.
Il gradiente che non è un gradiente
Credo che tutti siano pronti a giurare che l’immagine sopra contiene due gradienti incrociati. Il quadrato più esterno contiene un gradiente che passa dal nero al bianco, diagonalmente, partendo dall’angolo in basso a sinistra. Il più interno… non contiene nessun gradiente. Il grigio che lo caratterizza è numericamente uniforme in ogni singolo punto. Eppure noi vediamo l’angolo in basso a sinistra più chiaro di quello in alto a destra. Qualsiasi individuo vedrebbe la stessa cosa: ma qualsiasi congegno elettronico in grado di misurare l’intensità luminosa emessa da un monitor in corrispondenza del quadrato interno non rileverebbe nessuna differenza. Questa differenza, dunque, c’è o non c’è? Risposta: 無.
L’unica risposta sensata che mi viene in mente è che il quadrato interno è uniforme per una macchina; ma non per un essere umano. A questo punto scatta di solito uno dei termini che personalmente mi fanno sorridere: “illusione ottica”. Non c’è nessuna illusione ottica, a meno che non vogliamo dare un significato assoluto e totalizzante a ciò che la macchina ci dice. Possiamo, ma prepariamoci a sentire le risate del nostro sistema visivo. Per contrasto simultaneo, esso vede (e non “crede di vedere”) diversamente lo stesso colore o gradazione di grigio a seconda di ciò che lo circonda. È lo strumento che non è in grado di farlo, semplicemente. Dove sta l’illusione?
Già nel 1965, John Delk e Samuel Fillenbaum riportavano in un articolo l’esperimento che dimostra che il colore di ciò che vediamo è influenzato addirittura dalla forma dell’oggetto che stiamo guardando. Questo apre domande complesse su come memorizziamo i colori, e il risultato è che se guardiamo, ad esempio, un oggetto rosso a forma di mela lo percepiamo più rosso di un oggetto dello stesso colore che normalmente rosso non è, come una campana. Se ci viene richiesto di creare un colore uguale al “rosso mela” sceglieremo un rosso più intenso rispetto al “rosso campana”. Eppure i due oggetti hanno lo stesso identico colore.
Nel caso dei due quadrati concentrici siamo in presenza di uno stimolo che è “fisicamente uguale” e “percettivamente diverso”. Nel caso descritto nell’articolo lo stimolo che andiamo a scegliere per avvicinarci a un colore dato è “percettivamente uguale” e “fisicamente diverso”. Non è un fenomeno difficile da comprendere, con un modello che non ha nulla a che fare con il sistema visivo. Se prendiamo due candele da un lato e un accendino dall’altro e regoliamo la potenza della fiamma del secondo in modo che emetta la stessa quantità di calore delle fiamme combinate delle candele, avvicinando le mani alle due fiamme proveremo la stessa sensazione a destra e a sinistra. Eppure da un lato abbiamo due fiamme legate alla combustione della cera, dall’altra una sola fiamma derivante dalla combustione di un gas. Sono diverse, anche se emettono la stessa quantità di calore, ma che lo siano è irrilevante per le nostre mani che percepiscono uno stimolo identico. Quindi, sono diverse e uguali, allo stesso tempo. Dipende da quale punto di vista intendiamo assumere.
Questo ha una ricaduta anche su ciò che ci interessa di più. Qualche tempo fa un articolo intitolato “Il magenta non è un colore” ha fatto un bel po’ di rumore. Sarebbe stato meglio intitolare l’articolo “Il magenta non è un colore dello spettro”, perché infatti non esiste una lunghezza d’onda nel campo dello spettro elettromagnetico visibile in grado di generare da sola una luce color magenta. Ma è un colore, perché così lo percepiamo quando due onde distinte, che chiameremo in maniera ingenua “rossa” e “blu”, colpiscono il nostro occhio e si mescolano causando la percezione che denominiamo “magenta”. Quando osserviamo un campione di inchiostro magenta lo percepiamo come tale perché il colorante sottrae la componente verde alla luce bianca (siamo in piena sintesi sottrattiva, naturalmente). Sopravvivono la componente rossa e la componente blu, e il fatto che non ci siano due illuminanti distinti a produrle è importante dal punto di vista fisico (sono due fenomeni completamente diversi) ma irrilevante dal punto di vista percettivo (percepiamo i due fenomeni allo stesso modo). Due punti di vista che vanno considerati entrambi, perché nessuno dei due è corretto se preso in isolamento.
Le mie carte, in tavola
Io però, e qui mi sto schierando apertamente, rovescerei il discorso relativo alle illusioni ottiche: le chiamerei illusioni dello strumento, dando un ruolo filosoficamente antropocentrico alle caratteristiche del sistema visivo. Il problema, per come lo vedo io, è che dal punto di vista strettamente produttivo, nella vita di tutti i giorni, cosa dice lo strumento è spesso importante e altrettanto spesso irrilevante. Lo è perché il mio cliente, davanti ai due quadrati riprodotti sopra, vedrebbe due gradienti, non uno. Che i due gradienti ci siano o non ci siano “realmente” (e auguri a definire questo termine) è una questione secondaria dal punto di vista pratico. Il cliente li vede. Stop.
Se sembra che questo stia degenerando in una mera disquisizione filosofica, vorrei riportare il tutto su un livello più pragmatico. Il pragmatismo in questo caso suggerisce che le mie fatture vengano pagate da un cliente umano, non da uno strumento di misura. Devo quindi rendere conto a un essere umano di ciò che vede, non a uno strumento. Lo strumento è una gruccia che mi permette di misurare dei dati, ma alla fine non può rappresentare l’unico metro di giudizio. Pertanto, nella mia posizione, davanti ai due quadrati prendo i dati dello strumento che mi dicono che il riquadro interno è uniformemente grigio, accetto che lo strumento non si comporta come il sistema visivo e tiro diritto. Il paradosso è che se volessi fare un quadrato interno che appaia uniformemente grigio dovrei inventarmi un controgradiente che compensi il fenomeno del contrasto simultaneo. E non sarebbe affatto facile. A volte è molto più facile accettare la realtà piuttosto che costruire dei modelli che la descrivano – che è una nobile operazione, naturalmente, fino a che non si avvita su se stessa. Anche perché è inutile: se i modelli incompleti potessero cambiare la realtà, almeno avremmo una chance. La realtà, in questo caso percepita, rimane purtroppo quella che è. Non esiste un solo modello al mondo che la possa modificare. Il mio limite? Quello di chiunque: non posso vivere nel mondo delle idee; e non posso andare oltre il mondo sensibile. In pratica, vivo nella crepa che si crea necessariamente tra queste due entità.
La partita tra coloristi e calibrazionisti si gioca dunque su due affermazioni, necessariamente schematiche:
COLORISTA: «non mi importa che i numeri siano uniformi, mi importa ciò che il sistema visivo percepisce partendo da quei numeri.»
CALIBRAZIONISTA: «il sistema visivo fa quello che vuole, ma i numeri sono uniformi – quindi quel gradiente non esiste.»
La difficoltà di conciliare queste due posizioni è pari a quella di risolvere i grandi conflitti internazionali, perché ciascuna parte non vuole saperne di vedere le ragioni dell’altra. Vedo due strade: uno scudetto con lo slogan Be My Enemy oppure quella che mi appare come l’unica mediazione possibile: l’accettazione bilaterale del fatto che il quadrato interno, se circondato da uno sfondo uniforme, ha un aspetto diverso rispetto a quando è circondato da un gradiente. L’espressione “ha un aspetto diverso” è assolutamente cruciale in questo contesto. Tutto va contestualizzato. I massimi sistemi crollano, nel reale.
Se iniziamo a lavorare con il colore vero e proprio, le cose si complicano ulteriormente. Un’immagine di Akiyoshi Kitaoka, il cui originale si trova qui.
Stessa situazione di prima, solo più clamorosa. Vediamo gli anelli interni bianchi su sfondo blu, gialli su sfondo rosso. In realtà sono tutti gialli, definiti dalla formula 255R255G0B. Di nuovo quella che senz’altro verrebbe nuovamente definita “illusione ottica”.
A Way Out
Per uscire da quella che sembra un’impasse irrisolvibile utilizzo un ragionamento un po’ più articolato. Ogni teoria scientifica si basa su modelli. I modelli, di solito, nascono in base a ragionamenti semplici e lineari e vengono integrati e arricchiti nel corso del tempo, diventando più complessi. I modelli spesso nascono da negazioni. La meccanica newtoniana, ad esempio, è più semplice della meccanica relativistica che peraltro può descrivere fenomeni che la vecchia teoria non è in grado di spiegare. Ma la seconda non contraddice la prima, anzi la contiene come caso limite. Allo stesso modo, le equazioni di Maxwell definiscono perfettamente la propagazione delle onde elettromagnetiche ma sono in contraddizione con alcuni aspetti della cosiddetta radiazione di corpo nero: una contraddizione che portò, assieme ad altre osservazioni, a una prima formulazione della meccanica quantistica, che di nuovo contiene quella newtoniana come caso limite.
Il vero problema, oggi, è che non abbiamo modelli completi del sistema visivo che non siano ampiamente fenomenologici. Molti aspetti della visione sono spiegati solo parzialmente e ho pochi dubbi che diverse spiegazioni verranno superate da altre in futuro, andando a integrare e rinforzare i modelli esistenti. Ne deriva che le previsioni dei modelli attuali, pur perfettamente corrette da un punto di vista deduttivo, sono limitate. E se il nostro sistema visivo si prende gioco della costanza dei numeri in casi semplici come quelli esposti sopra è facile immaginare che davanti a un’immagine complessa come una fotografia le cose si complichino sensibilmente.
La mia posizione, dunque: dobbiamo mettere in atto ogni possibile meccanismo per garantire una corretta riproduzione del colore attraverso la catena di produzione, ma in casi complessi non dobbiamo fidarci ciecamente della teoria quando andiamo a calarla nella realtà. Se lo scopo è produrre una serie di oggetti caratterizzati da un certo colore rosso uniforme e dobbiamo garantire che il colore sarà costante su tutta la serie, le misurazioni e una qualche forma di gestione del colore (in senso lato) sono parte essenziale del controllo di qualità, perché questi oggetti sono cromaticamente molto semplici. Allo stesso modo è essenziale garantire che nel corso della tiratura di un libro in stampa offset non intervengano variazioni eccessive, ma la verità è che qualsiasi stampatore degno di questo nome conosce bene i limiti della gestione del colore quando si cerca di applicarla alle macchine da stampa: i discorsi che si sentivano a Grafitalia 2013 andavano in grandissima parte nella medesima direzione. I più estremisti non vogliono più sentir parlare di gestione del colore, e non perché la disciplina sia sbagliata di per sé, ma perché chiedono a gran voce una disciplina che tenga conto delle problematiche reali. Qui non si tratta tanto di problemi percettivi, per una volta, ma tecnici: una macchina da stampa è soggetta a fluttuazioni e variabilità tali che la pretesa di caratterizzarla con un profilo colore naufraga nell’arco di pochi minuti. È possibile definire uno standard con dei margini di variabilità, naturalmente, ed è esattamente ciò che succede. Ma l’intervento manuale (e percettivo!) di un bravo operatore che riesca a creare una corrispondenza buona o ottima tra il prodotto della stampa e una prova certificata di riferimento rimane insostituibile. La pura e semplice gestione del colore basata su misurazioni strumentali non è oggi in grado di ottenere lo stesso tipo di risultato.
Nella diatriba su cosa sia reale e cosa no, non voglio neppure entrare. Per quanto mi riguarda la realtà può essere qualsiasi cosa: tutto ciò che io conosco sono le rappresentazioni che mi vengono fornite dal mio sistema visivo, da un lato; e dagli strumenti di misura, dall’altro. Una fotocamera digitale è, in ultima analisi, uno strumento di misura. I due mondi che vengono riprodotti sono così diversi che è necessario un certo tipo di intervento per cercare di avvicinare il secondo al primo: un intervento che si scontra con una gamma dinamica disponibile estremamente ridotta rispetto a quella che siamo in grado di percepire, e con altre mille problematiche – non ultimo il fatto che lavoriamo su una sezione bidimensionale di spazio pretendendo di rappresentare plasticamente degli oggetti che erano in origine tridimensionali.
Concludo ribadendo che questo è solo il mio punto di vista e che rispetto anche le altre opinioni – perlomeno finché funzionano. So bene che non è un punto di vista popolare in molti ambienti. Quello che cerco di fare è evitare di guardare rigidamente a uno schema basato su un modello che descrive solo in parte ciò che vediamo; cerco piuttosto di adattare di volta in volta quello schema alle esigenze reali della produzione. Perché, non dimentichiamocene, si parla di quello – non di filosofia. La filosofia, semmai, sta sotto e ognuno sceglie la corrente che preferisce. Ma la mia risposta preferita alla domanda «fino a dove puoi spingere un intervento di correzione del colore?» rimane quella del mio collega e amico Alessandro Bernardi: «fino a dove vuole il cliente.» Vale la pena di pensarci.
Concludo segnalando doverosamente quelle che considero tra le due migliori risorse disponibili in italiano sulla materia della gestione del colore: il blog di Mauro Boscarol e il gruppo di facebook Colore digitale. Sono rigorose, scientifiche e affidabili e le consiglio a tutti coloro che vogliano approfondire la materia tramite le risorse presenti online.
Il mio augurio è che si trovi un punto d’incontro tra le due discipline, in quanto permangono attualmente delle sacche assimilabili a terre di nessuno in cui è sempre pericoloso viaggiare: appoggiare il piede con troppa fiducia rischia di non farci vedere le sabbie mobili in agguato. E le sabbie mobili non differenziano i coloristi dai calibrazionisti: siamo percettivamente identici, per loro.
Buon week-end a tutti!
MO
Pregevole lezione.
Ho constatato che, purtroppo, ci sono duelli anche all’interno delle distinte “fazioni”. Le affermazioni di Alessandro Bernardi sono illuminanti al riguardo ed esplicitano anche, a mio modesto parere, che qualsiasi sia il fine del nostro lavoro ci vuole padronanza delle discipline che governano il risultato di quel fine. Siamo nel campo dell’immagine e quando mai le immagini sono la “fotografia” (nel senso di riproduzione autentica) della realtà? Siamo solo interpreti, mediatori.
Ovviamente è così. In marzo ero a Catania e una sera ho incontrato il noto critico fotografico Pippo Pappalardo in un circolo. Era lì per commentare un’immagine che aveva vinto un contest “popolare” indetto dal circolo stesso. Mi fece molta impressione per il taglio culturale profondo che diede al suo intervento, ma soprattutto per il finale, che suonava più o meno così: “…perché una fotografia non si può ridurre a semplici numeri.” Gli do perfettamente ragione, perché la suggestione emotiva non ha necessariamente a che fare con la tecnica, e non solo in fotografia. Ma anche qui, una divisione: esistono entrambi gli aspetti. Penso che il vero esperto riesca a vederli entrambi e a mediare, esattamente come credo che si dovrebbe mediare tra le due discipline di cui ho scritto.
Complimenti, straordinario tentativo di meditazione ragionata, oltre che interessante articolo scientifico/percettivo. Come sempre, se due posizioni accettassero di non essere più così rigide ci si potrebbe avvicinare si più e soprattutto risolvere più facilmente problemi molto pratici.
Grazie Piersimone – un aneddoto sulla mediazione delle posizioni.
Qualche mese fa mi chiamò un fotografo in preda al panico. La sua stampante aveva funzionato perfettamente fino a due giorni prima; poi aveva aggiornato il sistema operativo (forse troppo in fretta rispetto alla release) e le stampe erano: verdi. Doveva produrre delle stampe in b/n e aveva tre ore di tempo. Appurato che il driver era aggiornato, ovvero che il nuovo driver non era stato ancora pubblicato dal produttore della stampante, risolvemmo così: “Livello di regolazione curve, tira un po’ verso il magenta e stampa. Corretto? No, troppo verde. Ancora un po’ verso il magenta. Corretto? No, ora è magenta. Torna indietro un filo. Perfetto!”
Quella curva applicata a tutto il set di immagini risolse il problema e gli salvò il lavoro. È una pratica da disperati, ovviamente, che io chiamo “gestione del colore della mutua” ma quando non puoi fare altro, come in questo caso, è l’unica seria alternativa. Per inciso, il driver aggiornato che metteva tutto a posto arrivò… una settimana dopo. Ed era la prima cosa che avevo suggerito.
Ricordo che conclusi la telefonata dicendo: “non dirlo in giro, altrimenti vengo linciato.” Ho cambiato posizione: vale la pena di dirlo in giro. Volere è potere, a volte. E a volte un po’ di inventiva, e ricordare che un profilo colore è in ultima analisi una curva, può portare parecchio lontano.
Marco, splendido articolo. Davvero splendido!
Quanto ai duelli tra fazioni, io non li trovo così negativi, ne esce quasi sempre qualcosa di buono, ad esempio questo tuo scritto :-). E poi stanno ad indicare che la materia è viva, che c’è passione. A volte può sembrare che i diversi punti di vista siano inconciliabili, ma io credo che dopo un confronto in realtà cambi sempre qulcosa nel nostro modo di vedere le cose.
Grazie ancora.
Grazie davvero, Luca.
Affrontare questioni così complesse nel modo illustrato nel tuo articolo è davvero cosa pregevolissima. Mi è piaciuto moltissimo anche perché fa riflettere senza dare nulla per scontato. Ho sempre considerato il rapporto fotografo-cliente problematico ma è nulla rispetto alla richiesta del fotografo che chiede all’esperto di aiutarlo a rendere la foto “più vera”. Così per la correzione delle dominanti di colore o qualsivoglia problema legato alla correzione del colore. Come dici tu è questione che sfugge alla definizione perchè è evanescente. Ricordo una bellissima riflessione di J.C.Maxwell:” Se la sensazione che chiamiamo colore possiede delle leggi, ci deve essere qualcosa nella nostra natura che determina la forma di queste leggi. La scienza del colore è dunque una scienza della mente”
La conclusione: accontentiamo il cliente? Resto perplesso.
Mi hai fornito una visuale nuova dell’argomento che merita necessariamente un approfondimento e te ne sono grato.
Grazie Giuseppe, credo che tu abbia colto nel segno. Io voglio soprattutto stimolare una riflessione. Naturalmente ho un’idea mia, ma non la considero certo l’unica possibile. La battuta sull’accontentare o meno il cliente va interpretata. Io credo che alla fine, se i ruoli tra chi decide e chi esegue il lavoro sono divisi, un giusto confronto possa portare a un buon risultato. Se un cliente mi chiede di saturare di più un’immagine e mi sembra che la richiesta sia eccessiva, non ho problemi a dirlo; ma se alla fine la vuole davvero satura, non ho problemi a farlo. A un certo punto subentra inevitabilmente un gusto estetico di cui ognuno si rende in ultima analisi responsabile, a mio parere. O così dovrebbe accadere almeno. Nella realtà, poi… non sempre è così semplice.
Pregevolissimo intervento. Tutto si gioca sul sottile confine tra ció che appare e ció che è. E a volte ció che appare è più reale di ció che è. Continui scambi. Personalmente sono per forzare alcuni confini, da “cliente” e “”autore”” quale sono. Soprattutto grazie per le tue teorie e i tuoi scandagliamenti che danno la luce giusta per poter dominare il colore.
Roberto, ti ringrazio ma non sono le “mie teorie”. Magari… io mi limito a rielaborare e a cercare di sistematizzare una materia intricata e spesso sfuggente. È un piccolo contributo, un punto di vista, se vuoi. Se poi qualcuno ci vede una piccola luce che indica una direzione da esplorare, ne sono solo felice.
Tu, Marco, hai una capacità esplicativa dei concetti, difficili anche per chi ci lavora tutti i giorni, figuriamoci per chi ne è al di fuori, assolutamente non di questa terra. Ad ogni cosa che scrivi mi viene sempre da togliermi il cappello anche se non lo porto.
Grazie e complimenti1
Troppo buono, Claudio. Pensa che se fosse per me riscriverei ogni cosa che ho scritto, cercando di fare meglio. Ma so che non ha molto senso, quindi…
Beh Marco, ma in un certo senso già lo fai modificando alcune tue posizioni, non replicando mai in modo sistematico una lezione ecc…
Ti ringrazio Marco per aver espresso quello che è anche il mio punto di vista con una chiarezza che non possiedo. Potrei mettere la mia firma sotto se solo non fosse evidente che io non sono in grado di scrivere così… 🙂
Mi viene in mente una citazione di T. D’Aquino:”Timeo hominem unius libri”, cioè “temo l’uomo (che sa) di un solo libro”, in questo caso con un senso di superspecializzazione e di chiusura che porta inevitabilmente a visioni ristrette. Se la visione del particolare può essere interessante, perdere di vista il contesto può portare a discussioni inconciliabili, quindi ancora bravo per l’ampiezza del tuo articolo.
Grazie, Tiziano. Detto da te vale il doppio.
Ricordo di un compagno di scuola che dovendo scegliere la facoltà da frequentare all’università giustificò più o meno così l’indirizzo scelto: “Voglio fare Fisica, perché credo non ci sia nulla di più bello e concreto che studiare la natura e i numeri che nasconde. Questo è quello che stiamo facendo tutti, chi più chi meno. Si mette in numeri la ripetitibilità e quindi la costanza di rappresentazione del colore a livello device, e si mette in numeri la loro percepita “piacevolezza” grazie sopratutto all’approccio di Dan Margulis attraverso il PPW. Chiaro e diretto “as usual”. Non importa che ti ribadisca la mia stima. Grazie, Gianni Grandi