Innanzitutto, ben ritrovati a tutti. Lo so, è da molto tempo che non scrivo. Ci ha pensato Luca Negri, nel frattempo, con l’articolo sulle selezioni cromatiche in RGB pubblicato ieri, e altre cose stanno covando sotto la cenere. Colgo l’occasione per ringraziarlo dei suoi sforzi – il suo è un contributo rigoroso e prezioso che sono onorato di ospitare.
Per quanto mi riguarda posso solo ammettere la mia latitanza, dovuta a diversi fattori, il principale dei quali è il ritmo del lavoro degli ultimi tempi. Qualcuno avrà forse notato che nonostante i numerosi spostamenti non ho più pubblicato alcuna Roadmap. Conto di scriverne una cumulativa a breve, spero prima dei prossimi tre appuntamenti (Firenze, Colonia, Berna) che sono tutti molto importanti per me, e impegnativi.
Mi sono anche fermato per riflettere su un aspetto che sta diventando importante: so di cosa voglio scrivere, ma so anche come non voglio farlo. Intendo che sarebbe tutto sommato facile, anche se impegnativo, produrre un post di 500 parole ogni settimana al puro scopo di mantenere vivo il traffico su queste pagine. Qualche pillola, un po’ di informazioni, alcuni luoghi comuni; e magari recuperare di nascosto cose scritte anni fa, sulla scorta del fatto che nessuno le ricorda e si possono riciclare. Lo fanno in diversi: perché non io? Ma, ovviamente, non mi va. Non sarebbe onesto, credo.
Accade dunque che martedì, ovvero due sere fa, mi stavo interrogando su cosa scrivere nel mio prossimo articolo. Era uno di quei momenti che dentro di me chiamo “What, now?” “Che fare, ora?” Mentre stavo meditando su questa faccenda ho notato un messaggio su Facebook che non avevo visto subito, perché era arrivato nella cartella “Altri”. Proveniva evidentemente da una persona che non aveva stretto amicizia con me.
Ve ne parlerò tra un attimo, ma lasciate prima che recuperi un post fatto ormai più di due anni fa proprio su questo blog. L’aggiornamento dello stesso ha resettato il contatore, ma era stato il post di gran lunga più condiviso tra quelli dell’epoca. Lo trovate qui: era il Natale nell’anno 2012, ed ero stato ispirato a scrivere da un fatto molto preciso, che non vale la pena di citare.
Non vi chiedo di leggerlo tutto: è la storia di come io mi sia avvicinato alla fotografia e delle strane coincidenze che mi hanno portato a svolgere l’attività che svolgo – blog compreso. Ma un passaggio, quello sì, lo vorrei riprendere. Copio e incollo da me stesso:
Ho tirato fuori dal portafoglio – perché sta ancora lì – il biglietto da visita che Paolo Namias mi ha dato al Photoshow pochi mesi fa, quando mi venne presentato nello stand dell’amico Corrado Cabras. Namias porta avanti con coraggio e costanza le sue riviste ed è direttore editoriale di Editrice Progresso. L’indirizzo è sempre quello, come allora: Viale Piceno 14, Milano. E lo ricordo perfettamente, perché per me, nella mia mente di ragazzino, in Viale Piceno 14 viveva un personaggio che mi appariva mitologico che di nome faceva Renato Acri.
Renato (non posso chiamarlo altrimenti, pur non avendolo mai incontrato) è mancato pochi anni fa. Me l’ha detto proprio Namias, a quel Photoshow. Ma Renato fu colui che portò, di fatto, la stampa a colori nelle case dei fotografi italiani che avevano il coraggio di farla, alla fine degli anni ’70. Certamente, la portò in casa mia. Sono certo di poche cose al mondo, ma su almeno una non ho dubbi: se non fosse stato per lui oggi non starei scrivendo su questo blog. Renato s’inventò una rubrica che appariva su Tutti Fotografi e la chiamò “Tuttocolore”. Aveva coniato anche un neologismo per indicare i fotografi che sviluppavano e stampavano a colori in casa propria: “tuttocolorografi”. Anzi, ho una richiesta per me importante: se, tra chi mi sta leggendo, ci fosse qualcuno che in soffitta conserva ancora la collezione di Tutti Fotografi del 1977, lo pregherei di cercare nella rubrica della posta la lettera con il mio nome, a cui Acri rispose, intitolata “un tuttocolorografo di undici anni”. Non la ho più, e vorrei davvero rivederla.
Qualche giorno dopo, un’anima buona mi inviò la scansione dell’articolo del mese di settembre 1977 con la mia lettera. Un grazie, ancora oggi, per questo ricordo:
L’ho scritto sopra e non vorrei ripetermi troppo: ma Renato Acri è l’uomo che ha portato la fotografia a colori nelle camere oscure degli italiani. Non l’ho mai conosciuto, ma ho pensato ai suoi articoli tante di quelle volte da quei tardi anni ’70 che ho perso il conto. Non ho più un solo numero della rivista, persa in chissà quale trasloco da chissà quale soffitta, ma ne ricordo alcuni passaggi addirittura a memoria. E lo ribadisco, oggi più che mai: se non fosse stato per il suo approccio, probabilmente non starei facendo questo lavoro e non stareste leggendo questo blog.
Di Renato, negli anni, ho trovato una sola foto. Lo ricordo in una piccola stampa in bianco e nero, nella rivista, assieme a un gruppo di persone, a qualche convegno o incontro del settore. Il suo volto non era più grande di un centimetro, in quello scatto. Eppure… sono in grado di mostrarvelo, ora. Ho potuto finalmente mostrarlo a me stesso, quindi condivido, con il permesso che la proprietaria della foto mi ha gentilmente concesso.
Un pensiero va a Lucio Dalla, naturalmente: manca molto anche lui. Ma alla sua sinistra, per noi che guardiamo, c’è Renato Acri. L’altra persona è sua sorella, Marisa Acri, che martedì sera, proprio lei, si è presa il tempo di scrivermi su Facebook quel messaggio che stava quasi per sfuggirmi. La fotografia è stata scattata a Ravello, circa un anno prima che Renato venisse a mancare.
“Salve sono la sorella di Renato e con enorme gioia mi è capitato di leggere sul suo blog le belle parole che ha voluto dedicargli. Tutto cio che mi può ricordare il mio fratellone mi fa sentire meno la sua assenza. Grazie, Marisa Acri”
Credo che fosse il messaggio che stavo aspettando in quel momento, senza poter sapere che sarebbe arrivato. Ha causato… un minuto di quel silenzio, quello in cui il “What, now?” assumeva nella mia testa tutti i colori che Lab ha da offrire. Ho risposto qualcosa, ringraziando un po’ frastornato, perché – in un certo senso – ho atteso quel messaggio per quasi quarant’anni. Due anni, dal mio post, ma comunque quaranta.
Mi viene in mente un album della mia formazione musicale: “Van Der Graaf Generator – The Least We Can Do Is Wave To Each Other”. Il titolo è una citazione di John Minton, pittore e illustratore britannico vissuto nella prima metà del XX secolo. Significa: “Il minimo che possiamo fare è agitare le braccia gli uni verso gli altri.” Ovvero, segnalare che esistiamo, senza troppo rumore. Credo che questo fosse alla base del mio post del 2012, e credo che sia stato anche alla base del messaggio di Marisa.
Io e lei ci siamo telefonati ieri sera – anzi, lei mi ha chiamato a sorpresa dopo che ci eravamo scambiati i numeri il giorno prima. Per circa mezz’ora abbiamo parlato di quest’uomo che io non ho mai conosciuto e che lei, invece, ha avuto al suo fianco per tutta la vita. Abbiamo parlato di tante altre cose: di Tutti Fotografi, di Paolo Namias, di Milano, di Napoli, della vita. E così, come in uno specchio lontano, ho per la prima volta saputo qualcosa di uno dei miei ispiratori e maestri. È incredibile quanto possiamo essere influenzati da persone delle quali non conosciamo neppure il volto; ed è quasi assurdo scoprire alcune sconcertanti e improbabili similitudini.
Renato, ad esempio, non era un fotografo – come io non lo sono. Faceva tutt’altro mestiere, ma era divorato dalla passione per le immagini al punto di diventare un punto di riferimento per chiunque s’interessasse di colore “casalingo” in quegli anni così distanti da ora. Quello che io ho fatto è un centesimo di ciò che ha fatto lui, per forza di cose. Stiamo sempre in piedi sulle spalle di chi ci ha preceduto, che ci piaccia o no. Io le mie spalle-appoggio le ho, e sono diverse. Spero solo di non risultare pesante.
Renato, come me suonava il pianoforte, pur non essendo in senso stretto un musicista.
Renato, come me ora, scriveva di colore su una rivista di fotografia, cercando di comunicare nel modo più semplice possibile delle tecniche e delle idee. Se lui ci è riuscito con un ragazzino che aveva ancora undici anni quando scrisse la sua lettera (che venne pubblicata molti mesi dopo), penso che ci sia riuscito con molte altre persone. Spero, nel mio piccolo, di riuscire nell’intento a mia volta.
Io e Marisa, in comune, abbiamo invece il giorno di nascita dei nostri figli – a meno di un giorno di differenza. E certamente un ricordo, da angoli diversi, di qualcuno che entrambi consideriamo fondamentale, per motivi naturalmente diversissimi. Ma credo che questo sia il destino che tocca a chi ha un grande carisma naturale e un dono della comunicazione che non richiede il dono delle lingue – come qualcuno crede. Semplicemente, viene ricordato.
Quindi, il primo giorno dopo le vacanze di Pasqua del 2015, ho deciso istintivamente di ricominciare da qui: raccontando questa storia (perché, in fondo, i miei post sono delle storie – anche quando parlo di colore). Aspetto di tornare a Napoli per incontrare questa donna e un pezzetto di mondo che, paradossalmente, mi appartiene senza che sia mai lontanamente stato mio. E mi chiedo anche come mai tutto questo sia accaduto una settimana dopo che ero tornato da Napoli, dopo il mio corso all’ILAS.
Marisa mi ha detto che mi mostrerà le macchine fotografiche di Renato. Non potrei ambire a molto di più, credo. Se potrò toccarle, proverò qualcosa di strano – come una decina di giorni fa, trovarmi in piena notte nel cuore del Rione Sanità di fronte alla casa natale di Totò, in un improbabile film in bianco e nero molto contrastato. Lo so, sembrerà strano, ma per me quelle macchine fotografiche sono un pezzo di storia che non ho ancora visto. Una storia che passa per mio padre, per la sua Edixa 35 mm, per la vecchia camera oscura, per la scatola enorme di negativi che ancora conservo e che un giorno scansionerò, per il desiderio imprescindibile di parlare per immagini, per quanto possibile, per dire ciò che le parole non riescono a dire.
E presto tornerò con qualcosa di tecnico, lo prometto, a tormentarvi come sempre, e a tormentare soprattutto le certezze granitiche che spesso cercano di vendervi in rete. Almeno per un po’, non penso di andare in pensione.
Grazie a tutti, ma stavolta soprattutto grazie a Renato e a Marisa Acri: avrebbe potuto benissimo decidere di non cercarmi – ma lo ha fatto, e mi ha reso felice scoprendo quello specchio. Che, nella migliore tradizione dei giochi di specchi sembra incredibilmente vicino.
Avanti, alla prossima.
MO
Che bell’articolo, Marco! Pieno di suggestioni e di ricordi! E che facilità di scrittura avevi già allora, a undici anni! Incredibile! 🙂
Bellissimo articolo Marco, rileggendo le riviste di quegli anni si trovano pietre miliari di tecnica, suggerimenti e astuzie di persone come Renato Acri che sono diventate un patrimonio per i fotografi di ieri e di oggi.
Conservo il numero della rivista da cui ti ho mandato la scansione ed alla prima occasione te lo consegnerò come ricordo tangibile.
Buon Lavoro
Daniele
Grazie ancora davvero, Daniele – non sai quanto.
Un giorno spero di poter scrivere un post, o qualunque altra cosa la tecnologia ci permetterà di fare, citando te con la stessa riverenza.
“The outside world is black and white / with only one colour dead.”
Le macchine fotografiche forse funzionavano meglio allora, lasciavano più traccia.
O magari funzionano benissimo anche oggi, ma le sfumature sfuggono.
Non so niente di colore e del suo trattamento, so qualcosa del colore dell’anima.
Forse solo dalla fusione dei due generi di colore esce qualcosa che anche 40 o 400 anni dopo resta.
Sorry a tutti per l’invasione di campo.
“Yihla Moja, Yihla Moja – The man is dead.”
Grazie, Lorenzo.
bell’ articolo..sai essere coinvolgente anche quando non parli di tecnica! La memoria e i ricordi sono l’essenza dell’ uomo.
Grazie, Emilio!
Ho anch’io numerosi negativi che un giorno scansionerò.
Mi piace leggerti, Marco.
Grazie mille, Alfonso!
Marco, non ci conosciamo di persona, anche se io ti conosco da anni per avermi insegnato Photoshop e la correzione del colore, con i corsi di TIAB, e non sono mai stato iscritto ad un tuo blog ; mi ritengo un semplice fotoamatore con solamente una estrema ed intensa voglia di “ricambiare” con amore incondizionato verso tutto l’universo… l’onore ed il privilegio che ho avuto per essere in questo splendido viaggio nel nostro mondo, per la perfezione della natura che posso ammirare tutti i giorni, con la consapevolezza che tutto questo che abbiamo e che riteniamo ci sia dovuto di diritto… (e che probabilmente non riusciamo neppure ad apprezzare, per la sua grandiosità), dovrebbe bastare ed avanzare per innalzare e rendere perennemente stabile l’energia del bene e dell’amore, su tutto il pianeta…
Leggendo questo tuo articolo, ed anche completamente l’altro del Natale 2012, non ho potuto non lasciare una risposta … mi sono veramente emozionato… mi hai totalmente coinvolto emotivamente…
Forse perché mi hai riportato indietro nel tempo…io ho qualche anno più di te… “contrariamente” a quanto si potrebbe credere da una persona che (solo !) su Carta d’Identità non risulta più giovanissimo, senza i miei vari PC sarei senza anima… perché è con questi, con Photoshop, con Internet, e con la macro fotografia, che posso rendere un tributo a quella parte di micro mondo sconosciuto ai più… Nel mio piccolo sono riuscito a poter riveder volare nel mio paesino la nostra splendida farfalla italiana Papilio Machaon, allevando svariati bruchi, tenendomeli come crisalidi per tutto l’inverno, al riparo da tutto e tutti, con la enorme felicità di veder nascere e volare il “Macaone”, ai primi caldi… te ne ho fatto un piccolo tributo, e ti ringrazio nuovamente anche ora, per l’immagine che hai scelto per l’ultimo tuo corso su TIAB, del mio maschietto nato da non più di un’oretta…
Ma il messaggio che ti voglio lasciare è che i tuoi insegnamenti sono “meravigliosamente unici”; da completo autodidatta mi sento onorato di poter “vantare” una discreta conoscenza di Photoshop proprio grazie a te, di poter valorizzare le mie immagini con correzioni (soggettivamente) “perfette” e che tutt’ora, mostrando anche su stampa a persone “comuni” e non solo virtuali, mi fanno ricevere sincere congratulazioni…
Ti chiedo quindi di continuare a regalarci questo tuo percorso di incessante comunicazione, questa tua forza vitale, che ti contraddistingue e ti rende Unico…
Con sincero ringraziamento
Aureliano
Aureliano, ti ringrazio. Ho molto poco da commentare, a dire il vero, e confesso che mi sento un po’ imbarazzato per tutto questo entusiasmo.
Quello che mi sento di dire è che ognuno di noi, nella sua passione e magari nel suo lavoro, sceglie delle strade che gli si addicono. Non sono le uniche strade, e sono certo che per ognuno che pensa che ciò che insegno sia utile esiste almeno una persona che ritiene che sia un modo di procedere sbagliato. L’errore sarebbe pensare che il nostro punto di vista sia l’unico possibile, naturalmente.
Su questo mi interrogo costantemente, e il tempo di elaborazione delle risposte è spesso molto lungo. Insomma, si procede lentamente. Alla fine ciò che importa è raggiungere un risultato; io faccio delle proposte operative basate su ipotesi ragionevoli, ben sapendo che non sono le uniche possibili. Fino a che a qualcuno interesserà parlarne, io rimango ben disponibile. E se a un certo punto non sarà più così, no problem: avremo comunque fatto un pezzo di strada più o meno insieme.
Grazie ancora per la fotografia che mi hai “regalato” per il corso che citi. L’intera serie è molto interessante, a mio parere, perché mette assieme visioni diverse di fotografi diversi – con sensibilità naturalmente diverse. Mancava una macro, e la tua è capitata a proposito. Spero che il Macaone sia rimasto soddisfatto, anche lui, del mio intervento :).
Un caro saluto e grazie ancora!