Nel mese di aprile, al CPS di Milano, conobbi Guido Galeazzi e Valerio Maruffi. Dopo il mio intervento ci fermammo a parlare a lungo di bianco e nero, di come tradurre in differenze di luminosità i contrasti cromatici e cose del genere. Mi dissero che venivano dalla provincia di Piacenza e che erano attivi in un gruppo denominato Wide Land Photography che si occupa soprattutto di fotografia paesaggistica. Parlammo vagamente della possibilità di organizzare qualcosa nella loro zona e rimasi colpito dall’evidente spirito di ricerca personale, tecnica e stilistica, che traspariva dalla nostra conversazione.
Verso l’inizio di giugno si fecero vivi e iniziammo a pianificare l’evento di due giorni che si è concluso oggi. Come accade sempre più di frequente, la richiesta era di personalizzare la formazione indirizzandola lungo binari che possano essere utili a chi si occupa di fotografia di un certo tipo: illustrare le caratteristiche di CMYK non è probabilmente di grande interesse per un gruppo di fotografi, così come soffermarsi troppo a lungo sul colore dell’incarnato non è granché utile a chi preferisce fotografare montagne che realizzare ritratti in studio. Nel giro di due settimane iniziò a emergere in maniera chiara una sigla che ricorreva sempre di più: PPW. Ovvero, mi si chiedeva di illustrare il flusso di lavoro denominato Picture Postcard Workflow ideato da Dan Margulis e formalizzato poco più di un anno fa nel suo ultimo libro.
PPW: gioia e dolore. È un flusso di lavoro eccezionalmente duttile e versatile, ma non semplice da insegnare; tantomeno da imparare. A un certo punto avevo deciso di sospendere l’argomento perché avevo la sensazione di non avere ancora messo a fuoco il metodo didattico giusto per affrontarlo. Poi ho iniziato a illustrarlo in maniera schematica facendo alcuni esempi, poi a inserire la manovra denominata MMM, ovvero Modern Man from Mars come possibile passaggio canonico per certe immagini. Ma tutto era sempre molto spezzettato.
In questo caso la sfida era ancora più complicata. Si trattava di prendere un gruppo di persone con una conoscenza di Photoshop a livello intermedio, iniziarle alle tecniche di correzione del colore illustrando i capisaldi del flusso di lavoro tradizionale, da me ora identificato come ASIA (Analisi – Strategia – Intervento – Analisi) e poi, immediatamente dopo, dirgli: “bene, abbiamo scherzato, ora cambiamo punto di vista e dimentichiamo le manovre canoniche che avete appena imparato in favore di queste.”
Questo corso era stato inzialmente diviso in due moduli: la giornata di sabato (ieri) avrebbe dovuto articolarsi in una lunga lezione frontale sui metodi; quella di oggi, invece, prevedeva gli esercizi secondo il consueto schema: assegnazione di un set di immagini, realizzazione e confronto finale. Questo per permettere a chi desiderasse partecipare solo alla formazione teorica di iscriversi per un giorno. Non senza mia sorpresa, tutto il gruppo ha deciso di iscriversi a entrambi i giorni, a parte una persona impossibilitata a partecipare oggi. La classe del secondo giorno era quindi praticamente identica a quella del primo, e questo ha portato a una rivoluzione del programma in corso d’opera.
I due moduli sono diventati: flusso di lavoro tradizionale (ASIA) con esercizi, e PPW con esercizi, uno per giornata. In ordine sparso vorrei fare alcune considerazioni che sto mettendo a fuoco in maniera sempre più nitida.
È poco sensato, a mio parere, insegnare qualsiasi tecnica di correzione del colore senza fondare tutto sulla percezione. Poche cose inchiodano l’attenzione di una classe come la spiegazione del perché una fotocamera veda il mondo in maniera diversa da noi. Ritengo che questo sia legato al fatto che qualsiasi fotografo lo sperimenta, ma forse non sa esattamente perché. Gli esempi fatti tramite immagini, modelli, pezzi di teoria della visione e qualche scheggia di neuroscienze sono essenziali. La cosa che mi sorprende di più, ogni volta, è la fiducia con la quale un gruppo di persone che paga per sentire parlare di Photoshop segue in silenzio un discorso che per un paio d’ore non parla mai di Photoshop; mi limito a ricordare che tutto ciò che dico avrà una ricaduta pratica prima della fine, ed è assolutamente vero, perché nell’ultima ora ricollego tutti i fili inevitabilmente lasciati pendenti nella prima giornata.
Dopo tre anni che insegno con regolarità questi argomenti mi rendo conto che l’atteggiamento medio di viene ai corsi è profondamente cambiato. Nei primi Campus del 2011 tutto era molto più statico e rigido: le persone si iscrivevano per la curiosità suscitata da argomenti che in quel momento non erano certo noti alla massa, e raramente facevano domande. Tutto era più scolastico e in un certo senso più lineare. Ora è completamente diverso: esiste in Italia un nucleo per nulla trascurabile di persone che è stato catturato da questa disciplina e che sta avidamente cercando di approfondirla con le risorse disponibili, che non sono moltissime. Da un lato vengono poste domande puntuali sul perché nel tal videocorso faccio una manovra in un certo modo, o sul perché nel tale articolo ho scritto questo piuttosto che altro. Dall’altro, alcune domande sono molto acute e spesso non hanno una risposta elementare. A titolo di esempio, tre anni fa nessuno chiedeva ragione del perché una curva in ProPhoto RGB sia più a rischio di posterizzazione di una in sRGB; né si parlava di maschere di luminosità e di emulazione indiretta del sistema zonale; nessuno nominava il contrasto locale mentre oggi tutti ne parlano (con ALCE sempre in prima linea, a volte utilizzato come sostituto dello sharpening tradizionale); nessuno alzava la mano chiedendo se una certa manovra si può fare con “Fondi se”; soprattutto, nessuno arrivava a concepire domande relative al rapporto che il raggio degli aloni di sharpening chiari dovrebbero avere rispetto al raggio di quelli scuri (e buona fortuna a rispondere a una domanda che apre più o meno un abisso insondabile e ramificato come una grotta). Ora tutto questo è la prassi, la conversazione del pranzo, e la cosa interessante è che le domande raramente riguardano l’utilizzo diretto di una regolazione o di un comando; è assai più probabile che riguardino il senso di quell’utilizzo e la filosofia a esso sottesa.
Restano sul tavolo due grandi argomenti che vengono sollevati ogni volta. Il primo riguarda la gestione del colore. Anche se non vorrei parlarne, perché porta via tempo prezioso a tecniche più pratiche, è impossibile non farlo. La situazione attuale è più o meno questa: tutti hanno idea dell’esistenza dei profili colore e della loro importanza, ma pochi hanno messo a fuoco come la cosa vada gestita. Permangono dubbi sull’allineamento delle impostazioni di un software con un altro, sul ruolo del profilo del monitor, su come convenga reagire alla richiesta di Photoshop di come trattare un profilo non corrispondente o mancante. Ho elaborato un mini-modulo di circa mezz’ora che va al cuore della questione, senza giri teorici e portando esempi materiali sul perché certe prassi siano poco raccomandabili. Gli esempi sono così eclatanti che a nessuno sfugge l’importanza dell’argomento. L’obiezione che il flusso di lavoro basato su RAW metta tutto in linea non è sufficiente a semplificare ulteriormente la spiegazione, anche perché non tutti utilizzano Camera Raw e Windows, con rispetto parlando, è un campo minato per quanto riguarda la gestione del colore. Le domande su come gestire la faccenda nei convertitori RAW più disparati rappresentano la norma.
Il secondo argomento è ancora più spinoso e apre scenari assai complessi. La domanda più insistente è quanto convenga processare l’immagine nel convertitore RAW e quanto in Photoshop. Riducendo il campo e buttando via tutto il software di terze parti presente sul mercato, quanto convenga fare in Camera Raw e quanto in Photoshop. Il problema: non esiste risposta, un po’ perché ci sono flussi di lavoro diversi e un po’ perché alcune funzioni non sono state confrontate a fondo, perlomeno che io sappia, in maniera da stabilire quale dei due software operi meglio. I fotoamatori più seri iniziano ad avere la sensazione, non del tutto sbagliata, che Camera Raw sia un ottimo ambiente di sviluppo di medio livello, ma che il suo servizio in certe aree non sia a cinque stelle. Vengono riscontrate problematiche nella gestione del comando Esposizione in situazioni estreme, sollevati dubbi su quale sia l’approccio migliore alla riduzione del rumore, e ci si sta rendendo conto che funzioni accattivanti all’occhio come Chiarezza possono avere un impatto negativo sul margine di intervento che rimane poi in Photoshop: se è lì che vogliamo lavorare, naturalmente. Personalmente penso che nei prossimi tre o quattro anni si dovrebbero sistematizzare questi argomenti e dare risposte il più solide possibile, basate sull’analisi dei risultati e non sul pregiudizio.
Qui si apre purtroppo un vaso di pandora. Alcune delle cose che vengono propinate come informazioni certe e indubitabili sono, né più né meno, pregiudizi di tipo religioso che nessuno si è preso la briga di verificare con senso critico. Vengono fatte generalizzazioni fideistiche che assumono la dimensione di leggende metropolitane. Oggi, ad esempio, sono venuto a sapere che esiste una scuola di pensiero che bandisce l’utilizzo della regolazione Ombre/Luci sulla base del fatto che rovina l’immagine. La mia personale crociata in difesa della solidità delle immagini digitali, che hanno bisogno di martellate furiose per venire veramente rovinate, se si sa cosa si sta facendo, va in direzione della chiarificazione di affermazioni come questa, che sono semplicemente e dimostrabilmente false. Ho dimostrato con un esempio che l’impostazione predefinita di Photoshop per Ombre/Luci (un comando nato per il recupero delle immagini sottoesposte, che oggi utilizziamo in maniera diversa e più efficiente, anche perché abbiamo tecniche assai più sofisticate per recuperare dettaglio nelle ombre, anche in un jpeg, come i falsi profili) è indubbiamente eccessiva in molti casi “normali”; ma che un velocissimo intervento sui valori proposti da Adobe risolve il problema. Non è semplicemente possibile affermare che una regolazione rovina un’immagine sempre. Ed è anche concettualmente errato, perché si tratta l’immagine come un’entità astratta, mentre è una realtà individuale, con punti di forza e di debolezza. Venire a conoscenza del fatto che un’immagine trattata con Ombre/Luci è considerata “non stampabile” da alcune scuole di pensiero è onestamente sconsolante. Chiunque si occupi seriamente di stampa sa che questa regolazione, se utilizzata in maniera oculata e in mani che sanno cosa sta facendo, salva molte stampe (non tutte) altrimenti inequivocabilmente chiuse nelle ombre. Appena si tocca questo argomento si riapre però il fronte della gestione del colore, dei profili, dei loro gamut (che, chissà perché, vengono sempre pensati in termini di colori saturi anche quando a volte il problema più grosso è l’estensione del gamut verso le ombre e i colori desaturati, e non verso le aree più vivaci dell’immagine), e si ritorna al via.
In sintesi, quando sembra che si sia insegnato tutto ciò che sembrava ragionevole, si scopre che c’è ancora una montagna di cose che vanno insegnate, ed è assolutamente giusto così. Penso che sia opportuno insistere con le teiere di Russell, dove almeno si dimostrano le cose invece di limitarsi a enunciarle e a crederle per fede in una qualche autorità conclamata. Io non ho alcuna fede, in questo campo: credo alla logica, credo a ciò che vedo, credo alla coerenza sistemica di un modello. Che non può fare acqua, e soprattutto deve dare risultati: un modello che non descrive il comportamento della realtà è semplicemente un modello errato. E non vedo errore più grave di quello di continuare ad applicare un modello errato quando si constata ogni volta che non funziona. E quando tu dimostri che no, non c’è nessun mostro marino nascosto nella regolazione Luci/Ombre, il tuo interlocutore usa parole come “sollievo personale” nel venirlo a sapere. Insomma: il problema non è tanto nel software, ma nella formazione che si fa sul software.
A mio parere l’unica cosa alla quale dobbiamo guardare sono i risultati; e in subordine, la costanza dei risultati. Nell’esercizio di oggi, tre immagini di cui una non facile sono uscite dalle mani dei presenti senza alcun errore clamoroso. Alcune erano un po’ timide, altre avevano qualche problematica inevitabile nel momento in cui si attaccano, nel giro di sessanta minuti, tre scatti mai visti prima con un flusso di lavoro appreso in mattinata. Ma alcune versioni erano brillanti, e in due casi sono stato realmente sorpreso dei risultati. Queste tecniche, applicate a ripetizione, con costanza, abituandosi a leggere le immagini fotograficamente oltre che dal punto di vista tecnico (qual è il soggetto? quali sono i suoi punti di forza? come si rapporta allo sfondo?) portano davvero a dei risultati. E credo che i partecipanti di oggi se ne siano resi conto toccando con mano che è possibile arrivarci, tutto sommato in fretta.
Concludo con un episodio che considero molto emblematico e che ha assai a che fare con la maniera in cui affrontiamo questi argomenti. Nei corsi utilizzo spesso uno scatto (che, tra l’altro proviene dal primissimo CCC e per il quale ringrazio Anna Largaiolli) che ha una caratteristica abbastanza formidabile: il soggetto consiste nel primo piano e nello sfondo contemporaneamente. Il problema è che l’originale ha il primo piano decisamente troppo scuro. La colpa non è della fotografa: quando si deve riprendere un individuo decisamente abbronzato nella luce abbagliante del deserto a mezzogiorno su uno sfondo illuminato dal sole, nessun flash di riempimento in mano a nessun professionista è abbastanza potente. Il lampo che parte dalla fotocamera è un gattino rispetto alla tigre che sta cuocendo il manufatto che occupa lo sfondo, l’individuo e anche il fotografo. Il Bigger Hammer del PPW mette a posto le cose in un solo click e riequilibra perfettamente la scena, creando un senso di profondità inedito nella versione originale della fotografia. Però ha un problema: genera aloni. Alcuni di questi vanno rimossi a tutti i costi, perché sono realmente evidenti. E, naturalmente, si può fare.
Per puro caso oggi mi sono trovato a lavorare su un ritaglio dell’immagine originale, e gli aloni più feroci non c’erano, perché si generano al di fuori dell’area sulla quale stavo intervenendo. Ce n’erano altri, attorno al soggetto, che io considero assolutamente sopportabili per qualsiasi essere umano medio. Li ho fatti notare e i presenti hanno subito affermato che dovevano essere rimossi perché erano inguardabili. A quel punto ho pensato di fare un esperimento: ho chiesto a tutti di chiudere gli occhi e non guardare per circa trenta secondi cosa avrei fatto. Ho affermato che avrei rimosso gli aloni con una tecnica specifica e poi avrei spiegato come. Tutta la platea ha obbedito e io ho messo assieme una maschera adatta a rimuovere gli aloni incriminati. L’ho aggiustata per qualche secondo: e poi ho disattivato il livello sul quale stavo lavorando. Ovvero, quando ho detto “potete guardare” ho presentato la stessa identica immagine di prima, senza un solo pixel diverso. Tutti concordavano che gli aloni fossero spariti. Quando ho rivelato il trucco c’è stato un momento di ilare imbarazzo. Ma è solo la dimostrazione pratica di qualcosa che sta alla base di tutti questi argomenti: noi vediamo ciò che vogliamo vedere. È così semplice. In subordine, dubito che chiunque non avesse visto nascere gli aloni li avrebbe notati. I presenti li hanno visti per contrasto simultaneo con una versione non alonata, quando io passavo dal prima al dopo, facendoglieli pure notare. Ma un osservatore casuale della mia versione finale non avrebbe avuto riferimenti, e avrebbe tranquillamente accettato gli aloni. Per questo serve un fondamento quantitativo della disciplina, una valutazione oggettiva e distaccata. Che, come sempre ripeto, non tocca in alcun modo le scelte estetiche di chi scatta o post-produce la foto, che continuano ad avere un ampio margine.
Tutte queste considerazioni si sono addensate mentre viaggiavo di ritorno sull’autostrada, accompagnate dal ricordo estremamente gradevole di un gruppo di fotografi interessato, coeso, realmente desideroso di scavare nelle proprie immagini. L’entusiasmo di ritorno aumenta il mio entusiasmo nel dire le cose, e credo che un circolo virtuoso sia utilissimo in questi casi. Ringrazio davvero Wide Land Photography, e Guido in particolare, per la splendida accoglienza, per il casale messomi a disposizione a Vicobarone (sì, ho vissuto per due giorni nel cuore della civiltà contadina del piacentino, così vicino al confine lombardo che probabilmente avrei potuto arrivarci a piedi in pochi minuti), per la cena in collina, per le chiacchiere, il rispetto, tutto. E soprattutto per avermi dato l’occasione di mettere a fuoco ulteriormente le problematiche che stanno a cuore a chi partecipa a questi corsi: ciò che mi viene chiesto di insegnare non è il vero problema; il come farlo, sì, e queste prese di coscienza dello stato delle cose sono punti di svolta che aiutano a mettere a fuoco (manualmente, s’intende!) il soggetto principale. E poi, Guido, gli diamo anche una misuratina in luce incidente con il vecchio Lunasix 3, visto che lo abbiamo tutti e due.
Grazie a tutti, a presto!
MO
Leggo sempre con una certa soddisfazione mista ad invidia questi resoconti, sempre impraticabili per un motivo o per l’altro per me, subalpino.
Mi “faccio andar bene” il webinar di sabato dopo aver partecipato al primo, ma non te la caverai così sappilo!
Con affetto
Alessandro