La memoria digitale aiuta, a volte. Posso dirvi con certezza che erano le 15.27 del 28 giugno 2013, grazie al mio cellulare che suonò in quel momento e che ancora porta in sé traccia dell’istante esatto in cui non risposi. Già, perché io rispondo sempre al telefono; a volte non lascio all’interlocutore neppure il tempo di salutare e lo aggredisco con “scusa, ora non posso, ti richiamo più tardi”. E chiudo. Ma quel giorno non andò così, anche se avevo visto il nome di una delle mie più care e stimate amiche – Claudia Rocchini. Non risposi perché non potevo, davvero. C’era una cosa più importante, più delicata, che richiedeva la mia attenzione. Però alle poche chiamate non risposte si deve dare un seguito, giusto?
Personaggi e interpreti, dunque. Quella sera, poco dopo le 21, la chiamai io. Ero in autostrada, diretto a sud, perché mi sarei incontrato con Marco Diodato – che molti di voi conoscono almeno di nome. Una decisione dell’ultimo minuto: «sono in giro, ci vediamo, casello di Affi.» Faccio il suo nome, perché Marco è stato il primo a cui ho raccontato questa storia. Il primo nel quale ho visto questa storia, di ritorno, negli occhi.
Claudia risponde. Mi scuso per non avere risposto io alla sua chiamata ma capisco che qualcosa non va. Si rifiuta, in un certo senso, di spiegarmi e mi invita a guardare la sua pagina facebook. Ho un iPad con me, ma non è il caso di mollare il volante a 130 km/h. Glielo dico. È strano come certi dettagli apparentemente irrilevanti restino piantati in testa in certi momenti: ricordo di avere dato una fugace occhiata al mio tablet chiuso e appoggiato sul sedile vuoto del passeggero e di avere mentalmente fotografato il castello di Avio che sfrecciava alla mia destra, prima di rimettere gli occhi sulla carreggiata. Claudia in quell’istante mi spiega, anzi mi chiede se ho sentito parlare del delitto di Bologna. Farfuglio un no: è da tutto il giorno che, di fatto, sono isolato. Non so nulla.
Mi dice che si chiamava Silvia Caramazza e che era una delle sue migliori amiche. Mi dice anche che lei è stata, forse, l’ultima persona a vederla; certamente una delle ultime, e certamente una tra quelle che ha denunciato la sua scomparsa, insospettita da troppe stranezze. Mi dice che Silvia è morta e lei lo ha saputo quasi per caso. Uccisa. In casa. Nel congelatore, si trovava. E mi dice che mi aveva chiamato per chiedermi di post-produrre una fotografia – l’unica presente in questo articolo. Lo scatto è di Claudia ed è quello che voleva dare ai giornali; per questo serviva un po’ di lavoro, forse.
No, un momento. Fermi. Quello non è uno scatto. Quella non è una fotografia. Quella è Silvia: è molto diverso. La vorreste guardare di nuovo, un attimo, per favore? Guardarla davvero. Semplicemente, guardarla.
Io in quel momento non c’ero, e credo che l’immagine sia poi passata per le mani di qualcun altro; non le mie, certamente. L’ho avuta solo oggi, quando ho chiesto a Claudia il permesso di scrivere questo articolo. Non che servano grandi permessi, in questi casi, ma l’etica è etica, e il dolore è dolore. Non ci si muove a casaccio, soprattutto quando c’è di mezzo un povero corpo straziato infilato a forza in un congelatore. A meno, naturalmente, che non siamo proprio anestetizzati a tutto.
Per la prima volta, forse, devo stringere tra i denti una rabbia che potrebbe diventare cieca, mentre scrivo queste righe. In questo momento vorrei essere Josif Brodskij, che riusciva a tenere sotto controllo perfino le virgole, ma non credo di poter giungere a tanto. Scrivo per Silvia, che non ne ha più bisogno; per Claudia, che ne ha bisogno; per la famiglia, che ne ha bisogno; per chiunque abbia conosciuto Silvia, anche i più crudeli tra loro, perché qualcuno è stato davvero crudele fino in fondo. Indicibilmente e inimmaginabilmente crudele. E forse sono proprio le persone più crudeli che ne hanno più bisogno di tutte. Ne ho bisogno anch’io, in tutta onestà. Su queste pagine sono a casa mia, e a casa mia posso permettermi di dire cosa penso: senza filtri e senza veli. A volte, è terapeutico.
Silvia aveva un blog, e a quanto ne so era stato proprio quello il suo punto di contatto iniziale con Claudia. Potenza dei social network, delle pagine, dell’ipertesto. Vorrei copiare poche righe, senza commento, tratte da un suo scritto che risale al 3 giugno: un mese soltanto fa, nel corso del quale il mondo per qualcuno si è ribaltato completamente sul suo asse. Un 3 giugno che avrebbe potuto essere giornata normale, giornata di ritorni, giornata di gioia, giornata della vita. E invece.
Quella velatamente fisica. Se dico che non ho voglia di rapporti e mi tocchi non una, ma più volte ripetutamente, oltre a darmi un fastidiosissimo senso di repulsione, penso rientri tra le molestie sessuali. Poi mi dici che vuoi essere chiamato amore…
Suona di già sentito, vero? A me sì. Qualcosa di luridamente familiare, un retrogusto di parole così note che quasi non ci si bada più. Quante volte… Ma questa volta, il giorno dopo avere scritto queste frasi Silvia fa l’ultimo viaggio della sua vita. No, anzi: l’ultimo viaggio di andata della sua vita. A Pavia, da Claudia. Ci sarà un ritorno, il 7 giugno. E poi, più niente. O tutto, dipende da cosa vogliamo guardare.
Non voglio commentare perché la rabbia potrebbe sfuggirmi dai denti tra i quali la sto mordendo. E vi pregherei di non pronunciare, neppure concepire, per favore, quella parola atroce, femminicidio, che mi appare più offensiva quasi del delitto stesso nel suo disperante tentativo di dividere le vittime per genere. Guardatela ancora negli occhi, piuttosto. Occhi che possiamo, forse, ancora guardare in maniera oggettiva perché non c’è (ancora) stato, o c’è stato in misura minore, il circo mediatico agghiacciante e vomitevole che ha accompagnato negli ultimi anni le vite e le morti di Samuele Franzoni, Chiara Poggi, Sarah Scazzi e troppe altre vittime innocenti. Ma attenzione, perché non si può mai dire: siamo ancora in tempo per questo. E, naturalmente, per lo sciacallaggio e la gogna mediatica. Ma vorrei, almeno questa volta, credere che non sarà così. («But I can’t» – rispose W. H. Auden.)
Questo blog è dedicato al colore in Photoshop e vi chiederete cosa c’entri tutto ciò. C’entra, perché davanti a questa foto io mi sarei fermato. Non ha bisogno di nulla. La componente b negativa di pochi punti nei capelli? Passi. Sono cose che un flash fa due volte su tre. L’incarnato con la componente a un po’ troppo alta, e un po’ disomogeneo? Per carità, lasciatelo lì. Vogliamo dirla tutta? È un filo fuori fuoco, appena un filo. A voi importa? Mi fa venire in mente una persona che, mentre mi scusavo con lei perché la sua fotografia, presa da me per gioco ma in qualche modo significativa, era un po’ mossa mi rispose senza indugio e sorridendo: “ma è molto più bella, mossa”. Aveva ragione. Voglio dire – c’è un’etica, o dovrebbe esserci: un’etica del non toccare, in tutti i sensi, quando è appropriato. Memoria digitale anche questa, fatta di valori RGB e non di orari di una telefonata non risposta. Non ho potuto ritoccare questa foto, e non la ritoccherò mai perché sarebbe quasi un delitto nel delitto. Ho scritto un articolo su una foto che non ha alcun bisogno di intervento. Non è originale?
Il motivo è che con Claudia, e ne abbiamo parlato nelle note a una mia intervista comparsa su Fotografia Reflex circa un mese fa, ci siamo una volta rifiutati di ripulire lo sfondo un po’ fastidioso della foto di un animale in cattività. «Questo è», ci siamo detti, «questo deve restare». E io dovrei ora toccare la pelle digitale di Silvia? A quale scopo? Non toccherò con una curva una pelle toccata troppe volte quando era vera, e viva, nel modo sbagliato, senza alcuna cura, senza tracce d’affetto. Senza tutto e senza nulla. Mi dispiace: io mi chiamo fuori.
Cosa posso mostrarvi, quindi? Posso farvi una lista: ad esempio il primo pixel in alto a sinistra, il cui valore è 77R80G84B, se vi può interessare. sRGB, per quello che vale. E qualche milione di altri numeri, a seguire. Numeri che rendono l’ultimo sorriso degli occhi, quello che qualcuno non potrà dimenticare mai; e lo so perché quando mi parla di questo al telefono non riesce a trattenere le lacrime.
A differenza di quando vado interiormente fiero di certe foto che ho ritoccato, mi sento stavolta indicibilmente fiero per non avere ritoccato questa. E adesso mi allontano e spero, davvero spero, di poter tacere per sempre su questo argomento da qui in poi. Preannuncio che i commenti sono aperti, verranno moderati, ma non risponderò ad alcuno, per scelta. E qualsiasi accento polemico, critico o offensivo nei confronti di Silvia e di chiunque verrà sradicato, d’imperio, dal sottoscritto – che non ha mai eliminato un commento da questo blog tranne lo spam.
Vi saluto con un ritornello, quello che gli U2 lasciavano cantare al loro pubblico mentre si allontanavano dal palco. Il brano era “40”, le parole che andavano avanti a oltranza per minuti, cantate a volte da decine di migliaia di persone, erano queste:
«How long to sing this song? Per quanto tempo dovremo cantare questa canzone?»
Non rileggo. Tasto: “Pubblica.” E se ci sono errori e sviste, fa lo stesso. Certe cose non si ritoccano.
Buon tutto, a tutti.
MO
Non ho molto da dire…ho visto Silvia negli occhi….ho letto le righe appassionate…
un lungo brivido ha percorso la mia spina dorsale ed un groppo si è formato in gola…poi solo una domanda,senza risposta..Perche?
Buongiorno, non posso ovviamente intervenire sul commento relativo a Silvia come persona poichè non avendola conosciuta, non ne sono emotivamente coinvolto come può esserlo Claudia. Sono invece pienamente d’accordo su quanto Lei afferma nelle considerazioni relative al ritocco fotografico. Per prima cosa tutte quelle”imperferzioni” che indica (d’altra parte è il suo lavoro e si capisce che deve essere molto bravo) non so quanti di noi possano notarle perchè, in casi come questi, la fotografia della vittima viene guardata sempre con un interesse di tipo emotivo oppure per curiosità, mai dal punto di vista tecnico. Capisco comunque che dovendo fornire al pubblico il miglior prodotto possibile, anche davanti alla più grande sciagura, si debba controllare fino all’ultimo pixel. A maggior ragione questa sua scelta prende un peso significativo e importante. Nell’immagine proposta, una delle ultime in cui Silvia sia ritratta mi sembra d’aver capito, c’è comunque la sua essenza, c’è il ricordo dell’occhio che in quel momento l’ha vista così e l’ha ritratta, c’è un sorriso di cui la fotografia ne riproduce unicamente l’immagine, non il suono, il profumo, il momento vissuto in 3D, un momento a 360°, multimediale insomma. Ritoccare qualcosa è come alterare il 3D della vita riprodotto in quel momento. Per questo motivo apprezzo la sua scelta.
Mi scuso se le ho rubato del tempo prezioso ma ho desiderato intervenire poichè ho vissuto in parte il problema quando è morta mia nonna. Le avevo scattato al volo una fotografia bruttina 2 ore prima che morisse inaspettatamente. E’ su quell’immagine che la piango ancora, è stata l’ultima della sua vita e non l’ho ritoccata.
Massimo
Nessuno è perfetto, anzi sono le imperfezioni che ci rendono speciali, uniche, originali, irripetibili. Silvia è nel cuore di chi ha amato e di chi l’ha amata, proprio questo amore la rende immortale.
Dio…
Dove sono Silvia, Chiara, Erika e Jamila?
Tutte, tutte dormono sulla collina.
Sono 66 le donne uccise in Italia ad oggi. La storia di Silvia mi ha colpita perché è accaduto il giorno del mio compleanno. E la storia di tutte loro e’ anche la mia. E le storie sono imperfette, ma non è la perfezione che importa.
Il dolore non ha colore, non ha odore, non lo si può ne toccare ne ascoltate eppure siamo tutti destinati a sentirne le grida. Rispetto per il dolore di un’amica che spero perdoni il non aver capito il suo dolore.
Dal canto mio non ho nessuna remora a ritoccare le fotografie di mio padre che, pace all’anima sua, se n’è salito in cielo troppo giovane poco più di due mesi fa.
So perfettamente chi era mio padre, che volto avesse, ho mille suoi ricordi e scelgo coscientemente quale sia la faccia che, volta per volta, mi piace ricordare.
E le foto non fanno eccezione.
Per inciso, la foto di Silvia è una bella foto, mi piace molto e la trovo espressiva, probabilmente non la ritoccherei nemmeno io. Ma qui l’etica c’entra ben poco, temo.
La foto é bellissima. Anzi, l’espressione di lei lo é.
Ma forse chiedendoti di Photoshopparla Claudia voleva che la rendessi perfetta, immacolata, una specie di ultimo regalo ad un’amica perduta per tutti coloro che vorranno pensarla almeno un istante.
Dai, fallo. E poi magari non mandarla a nessuno, in un’altra dimensione a noi estranea lei potrebbe esserne contenta.
Ciao….io l’ho conosciuta quando eravamo ragazzi…e abbiamo passato parecchio tempo insieme d’estate per anni…Era stupenda,bellissima con capelli lunghi e mossi,gentile e mai volgare,affiatatissima ai genitori…e sempre sorridente! Anche io quando ho sentito la notizia sono sobbalzato…e da allora mi stò domandando…se avessi potuto fare…dirle qualcosa!Non ritoccare la foto…lei era proprio così!!Ciao…Silvia…ti ho voluto-voglio-vorrò per sempre bene!!un bacio…
Questa foto è perfetta così. Te lo dico da fotografo.
Stupendo articolo che mi ha dato i brividi
qualsiasi parola e superflua.
Come l’intervento in post alla foto.
(Mi permetto di condividere questo tuo articolo in un gruppo che frequento).
Sono capitato per caso in questo post, è non posso fare a meno di complimentarmi con l’autore.
Sono daccordo con l’atrocità del fatto che si possa parlare di femminicidio: quando qualcuno ammazza qualcun altro, in particolar modo, vigliaccamente, partendo da un vantaggio di forza, numero o altro, è un assassinio, a prescindere da sesso, razza, gusti sessuali, età, o altro. Assassinio. Assassinio vigliacco.
Per il discorso della foto, secondo me, se qualcuno la può ritoccare, dovrebbe essere solo chi la conosce, se vuol far risaltare di più qualcosa che vedeva in lei, per il resto, ogni intervento sarebbe superfluo.
Ho conosciuto Silvia solo per mezzo di questa foto non ritoccata. Che bella persona, anche dentro!
Il suo destino è stato crudele quanto il suo assassino, ma questo tuo articolo ha regalato a questa dolce ragazza una carezza sul cuore e l’onore che meritava dopo la sua morte.
Grazie per quello che hai scritto, è una lezione doverosa per tutti quelli che hanno speculato sulla sua immagine, senza pensare che essa era prima di tutto anima viva e cuore sofferente.
Grazie a te del bel commento, Melissa, davvero.
A presto!
MO