A seguito dell’articolo sulle impostazioni colore in Photoshop pubblicato l’1 gennaio, ho ricevuto una richiesta di chiarimento che potete trovare nei commenti all’articolo stesso. La considero abbastanza importante da non volerla relegare in una risposta a un commento, e quindi ho deciso di elaborarla in questo post.
Ho appena letto l’ articolo qui sopra, riguardante la calibrazione del monitor e il profilo colore. Devo ammettere che ora mi trovo decisamente più confuso rispetto a prima.
Spero almeno che si tratti di una confusione a livello più alto! :-). Scherzi a parte, prendo spunto da questo per sottolineare una questione terminologica: il termine calibrazione è utilizzato spesso in maniera imprecisa. Le fasi che portano alla realizzazione di un profilo monitor sono tre: calibrazione, caratterizzazione, creazione del profilo. Personalmente chiamo profilazione l’insieme delle tre fasi, ma il termine calibrazione in senso stretto indica la procedura tramite la quale si porta un dispositivo in uno stato noto da noi scelto. Nel caso di un monitor questo può significare impostarne la luminanza, il punto di bianco o altri parametri ancora. La caratterizzazione è la fase in cui il software invia al monitor dei valori predefiniti per i colori e misura (tramite il colorimetro o lo spettrofotometro), come il monitor rappresenta quei colori, al fine di compilare la tabella che descrive la risposta del monitor stesso. Infine, la creazione del profilo: la tabella viene codificata in un formato compatibile con gli standard definiti da ICC (International Color Consortium) e assunta come profilo colore di sistema.
Ho acquistato un ColorMunki Display per effettuare la calibrazione dei miei due monitor, quello del portatile e quello dello schermo che uso in aggiunta. Attraverso diversi forum e tutorial mi hanno sempre indicato che si dovesse calibrare il monitor per avere la maggiore somiglianza possibile con il risultato su stampa. Infatti avevo impostato il nuovo profilo colore del monitor nelle impostazioni di Photoshop!!!
Allo stesso modo, è mal definita in assenza di specificazioni precise l’idea di confrontare due monitor diversi. Cerco di fare un esempio più il più semplice possibile per chiarire l’idea, partendo non da due monitor bensì da uno solo.
Nell’immagine qui sopra ho affiancato due fotografie del monitor del mio iMac. Ho materialmente fotografato il monitor: i due scatti sono identici in termini di ripresa, parametri di sviluppo del file RAW e via dicendo: l’unica differenza è che quello a sinistra ritrae il monitor con assegnato a livello di sistema un profilo colore con il punto di bianco impostato a D50 (Correlated Color Temperature, ovvero CCT = 5003 K) e quello a destra il monitor con assegnato un profilo colore con il punto di bianco impostato a D55 (CCT = 5503 K). Più la temperatura colore è elevata, più l’aspetto del monitor è freddo. L’immagine di sinistra mostra infatti una tonalità più calda rispetto a quella di destra. La differenza è particolarmente eclatante nella riproduzione dei toni neutri, ma tutti i colori sono affetti dalla diversa impostazione. Questa è, naturalmente, una scelta di calibrazione.
Il succo della discussione è questo: se assumiamo una posizione fideistica sul fatto che un profilo ben fatto di un monitor ci deve dare una resa perfetta dei colori, è chiaro che uno di questi due profili deve essere sbagliato. In realtà l’unica cosa sbagliata in questo caso è la posizione fideistica: per l’ennesima volta – un profilo non rende i colori perfetti ma si limita a mettere il nostro sistema in grado di rappresentarli al meglio compatibilmente con le caratteristiche tecniche del monitor e le nostre scelte di impostazione. Entrambi questi profili sono corretti, anche se mostrano colori diversi. Sono corretti, beninteso, nell’ambito delle due diverse scelte di calibrazione – che differiscono per quanto riguarda il punto di bianco.
Se allarghiamo il problema a due monitor fisicamente diversi, è chiaro dove andremo a parare: per tornare al paragone dell’articolo precedente, abbiamo due automobili diverse tra loro. Diversa la tecnologia costruttiva, diversa la cilindrata, diverso tutto. Se anche avessimo due automobili della stessa marca e dello stesso identico modello, ancora troveremmo delle differenze perché le automobili (come i monitor!) sono oggetti fisici con tolleranze costruttive ben precise. Fino a che tutto è digitale, ideale, numerico e perfetto, questa cosa non ha alcun peso; ma quando si cerca di tradurre un numero perfettamente definito in una quantità fisica ci si scontra con ogni sorta di variabilità. Pertanto: è possibile che due monitor riproducano in maniera assolutamente identica i colori? La risposta è: no. La buona notizia è che la loro riproduzione sarà compatibile, al punto che la potremo considerare praticamente identica dal punto di vista visivo, in un insieme più o meno esteso di colori. Se saremo fortunati avremo due monitor che potranno essere considerati a tutti gli effetti identici dal punto di vista pratico; ma ciò non toglie che saranno caratterizzati da profili diversi, che avranno un degrado nel tempo e andranno nuovamente profilati, e via dicendo.
Un esempio, di nuovo estremo. In uno dei miei studi ho un Apple Cinema Display di circa dieci anni fa, ormai inutilizzato. È un vecchio monitor, che ha fatto il suo tempo, caratterizzato da un’area giallastra estesa nell’angolo in alto a sinistra. Non esiste un modo di creare un suo profilo in maniera che quell’area scompaia: se andassi a posizionare il colorimetro in quella zona per misurare i campioni creati dal software di profilazione otterrei un risultato atroce perché il resto dello schermo risulterebbe fortemente bluastro. È un esempio estremo, come ho detto, ma serve per rendere l’idea.
La linea della somma finale: non ha un senso preciso parlare di compatibilità tra monitor e stampa senza specificare le caratteristiche di osservazione. Mi riferisco al punto di bianco dei monitor, alla luminanza degli stessi, alla temperatura colore della luce con la quale osserviamo la stampa, alla sua continuità spettrale e via dicendo. In assenza di prescrizioni precise, il match tra monitor e stampa è semplicemente una chimera. Quello che possiamo fare è tenere il più possibile sotto controllo le condizioni di osservazione, in un ambito e nell’altro, cercando di renderle compatibili; creare i profili che ottimizzano la prestazione dei due monitor a disposizione (nel caso della richiesta del lettore) e magari anche della stampante; e soprattutto usare la testa, di cui siamo dotati, per accettare che entro certi limiti delle differenze saranno sempre riscontrabili – anche perché i due media sono totalmente diversi (il monitor retroilluminato, la stampa fruibile solo in luce riflessa).
Proprio tutto l’opposto rispetto a quello di cui ha parlato nell’ articolo.
Uno dei prossimi articoli che ho in mente di scrivere riguarderà due atteggiamenti possibili nei confronti di problemi come questo: il primo è quello che definisco atteggiamento scientifico, il secondo quello che invece definisco atteggiamento religioso. Caratteristica del primo è esaminare i problemi e le soluzioni proposte nel tentativo di capire se hanno senso e se possiamo spiegare ciò che vediamo attraverso una serie di considerazioni razionali e basate su presupposti solidi. Caratteristica del secondo è dare per scontato che una certa soluzione funzioni rifiutando di metterla in discussione in base a un qualche principio di autorità: «è scritto in un autorevole libro, lo ha detto il tale esperto, quindi è vero.» È impressionante quanto anche nel nostro campo ci si rifaccia al principio di autorità su certi argomenti. Alcune cose che vengono affermate praticamente ovunque sono semplicemente false, o perlomeno gravemente viziate, e si possono smontare in pochi minuti con esperimenti che chiunque è in grado di fare. Eppure, continuano a rimanere venerate come verità di fede. Sbagliate, ma pur sempre verità di fede.
A priori non ho nulla contro un atteggiamento scientifico (che portato all’estremo diventa pericolosamente scientista), né contro un atteggiamento religioso (che portato all’estremo diventa ciecamente integralista): ma in casi come questi invoco perlomeno un po’ di buonsenso. Nell’articolo precedente ho dimostrato come l’assegnazione del profilo del monitor possa essere deleteria per le nostre immagini, portando delle prove: una tra tutte, l’elevata probabilità che i neutri non siano più neutri. A dire il vero, il problema più grosso delle impostazioni colore standard di Photoshop non risiede tanto nella scelta del profilo del monitor, quanto nella disattivazione della gestione del colore – ma questo è un altro argomento. Io credo che l’onere della prova di un’affermazione debba essere a carico di chi la fa: pertanto chi sostiene che la scelta del profilo del monitor sia in generale ideale per un flusso di lavoro corretto è benvenuto a portare delle prove a favore che siano concrete, pratiche e riferite al mondo reale, e io sarò ben felice di esaminarle; e a cambiare anche radicalmente idea, se necessario e opportuno. Se però queste prove non arrivano, continueremo ad avere affermazioni non suffragate da fatti – e, attenzione, le teorie puramente matematiche non sono fatti, ma elaborazioni di modelli. La matematica è molto precisa, e da fisico quale sono credo di saperlo almeno un po’; ma è anche incredibilmente scivolosa. È molto semplice, con una serie di passaggi apparentemente giusti ma in realtà profondamente errati dimostrare che 1 = 0. Il problema è che palesemente le due quantità sono diverse. Ovvero, io credo che tutte le affermazioni vadano confrontate con la realtà. Questo è ciò che intendo per applicazione del buonsenso. In caso contrario, è scientismo o integralismo religioso, ed entrambi questi atteggiamenti sono la morte del buonsenso.
Dunque mi chiedo: come e perchè debba fare la calibrazione? Devo fare l’ armonizzazione dei due schermi? Devo effettuare la calibrazione per ogni momento della giornata: (luce mattutina, diurna, la sera, etc)?
Il perché dovrebbe essere chiaro, a questo punto: lo scopo è semplicemente quello di creare un ambiente di lavoro in cui i colori possano essere riprodotti al meglio, compatibilmente con le caratteristiche tecniche del dispositivo e le nostre scelte di calibrazione. Ovvero: carburiamo bene l’automobile prima di metterci in viaggio, senza aspettarci che un’utilitaria possa fornirci le prestazioni di una Ferrari.
Come: scegliendo dei parametri sensati di calibrazione (a seconda delle nostre esigenze) e ricordando che punti di partenza diversi ci daranno risultati diversi. Non esiste un accordo al 100% unanime su quali siano i parametri di calibrazione ottimali nei vari ambiti; mi limito quindi a un’indicazione tratta da due insiemi di parametri disponibili per la profilazione dei monitor NEC di fascia alta (SpectraView):
- Editing fotografico – D65, Gamma 2.2, 140 cd/m2, Contrast Ratio: Monitor Default
- Stampa standard – D50, Gamma 1.8, 80 cd/m2, Contrast Ratio: Monitor Default
I parametri si riferiscono rispettivamente alla scelta del punto di bianco, al gamma della TRC (Tone Response Curve), alla luminanza massima, all’impostazione del contrasto. Si tratta naturalmente di valori suggeriti, e hanno un un senso, ma non sono gli unici possibili.
L’armonizzazione dei due schermi: le due profilazioni vanno fatte (se è possibile) con parametri di calibrazione simili. Ad esempio, se lo schermo esterno viene profilato con un punto di bianco pari a D50, è auspicabile che anche per quello del portatile venga fatta la stessa scelta. Il problema è che a volte questo non è possibile: mi è capitato di lavorare con schede video che non vogliono saperne di impostare correttamente i parametri imposti e davanti a una richiesta simile vanno completamente in tilt. Il risultato è che danno luogo a una visualizzazione verde, magenta, azzurrina, o di qualsivoglia colore. In quel caso la soluzione, di solito, consiste nell’utilizzare il cosiddetto punto di bianco nativo del monitor, che può assumere diversi valori a seconda della marca e del modello. In ogni caso non dovremo aspettarci che i due monitor rappresentino le immagini in maniera al 100% identica.
Oserei una raccomandazione: impiccarsi ai numeri, specialmente quando si usano colorimetri e non spettrofotometri, non è una grande idea. Il fatto che un colorimetro legga una data temperatura colore non significa che quella sia la vera temperatura colore: uno spettrofotometro è di norma parecchio più accurato.
Infine: diversi profili per i vari momenti della giornata? A mio parere, no. Sarebbe più sensato, nei limiti del possibile, cercare di costruirsi un ambiente di lavoro con delle variazioni ragionevoli, in modo che il monitor non venga mai colpito direttamente da luce troppo forte, ad esempio. In caso contrario rischiamo di confonderci le idee più di quanto non sia opportuno. Semmai può avere senso utilizzare la funzione di misurazione della luce ambiente messa a disposizione da molti hardware di profilazione per capire quanto siamo fuori noi rispetto ai parametri suggeriti. Ma cambiare profilo ogni due ore per compensare le variazioni ambientali non è un’idea che mi sento di sottoscrivere. A meno che, come sempre, non mi si porti un’evidenza reale del fatto che questa prassi possa influire in maniera significativa, ripetibile e qualitativamente elevata sui risultati che otteniamo nel lavoro quotidiano.
Concludo osservando che questi articoli sulla gestione del colore, che non hanno in alcun modo la pretesa di sostituire scritti ben più autorevoli e approfonditi dei miei, tendono a diventare piuttosto lunghi: e di questo mi scuso. La mia percezione, purtroppo, deriva da ciò che vedo nei workshop e nei corsi: queste cose interessano quasi più delle tecniche di intervento sulle immagini, perché c’è notevole confusione in giro. Il mio è l’umile tentativo di diradare un po’ di nebbia facendo riferimento a prescrizioni reali e non eccessivamente teoriche, che forse non sono di primario interesse per i fotografi e i ritoccatori – e che sono comunque autorevolmente presenti e non avrebbe senso replicare in questa sede.
Vi ringrazio per l’attenzione, a presto!
MO
Grazie mille Marco, come sempre nei tuoi articoli hai reso più comprensibile e semplice quei discorsi “tecnici” che spesso e volentieri vanno a finire nella retorica, lunghi giri di parole che alla fine, non portano da nessuna parte.
Mi spiace, Marco, ma i tuoi articoli non sono mai piuttosto lunghi; la mia è un’affermazione egoisticamente sincera. 🙂
Piuttosto comincio a pensare che articoli come i tuoi colmino un vuoto creato dal progresso tecnologico la cui rapidità è superiore alla capacità di aggiornamento della media dei fruitori. L’innovazione “friendly” ha permesso a un gran numero di persone di accedere a dispositivi una volta proibitivi sia per costo che per complessità d’uso; immagino che ciò accada per massimizzare i profitti, ma questa è un’altra storia. Rimane irrisolto, in questo processo, la capacità di comprensione dei fondamentali che sono alla base del funzionamento dei “gadget” tecnologici.
Si potrebbe quindi parlare del tuo blog come un “libro in progress”… Ma sarebbe troppo lungo. 😉
Grazie per tutto.
Grazie della considerazione, Antonio, ma attento al rischio: potrei iniziare a scrivere senza alcun controllo con potenziali ricadute per la salute :).
Scherzi a parte, spesso invidio i blog che riportano articoli molto succinti ma anche densi di informazioni; “pillole”, se vogliamo, che possono essere fruite nei pochi minuti che spesso dedichiamo alla navigazione. Purtroppo non riesco a scrivere in quel modo, e questo implica che chi vuole leggere i miei scritti deve prendersi più tempo. Il problema sta nel fatto che questi argomenti spesso non sono difficili, quanto complessi: ovvero, sono catene lunghe e articolate di concetti semplici. E l’unico modo che conosco per cercare di spiegare come funzionano è spezzare le catene nei singoli anelli. Vediamo per quanto verrò sopportato…
Sai, Marco, è possibile che le tue siano “pillole” in considerazione degli argomenti trattati proprio come tu stesso dici. Ritengo che prendersi del tempo per una lettura riflessiva non sia tempo perso. Ti ho già espresso il mio punto di vista sulla efficacia del tuo lavoro “didattico”. Credo che nessuno dei followers troverebbe noiosa la tua “prosa”. Mi fermo qui, non vorrei sembrare un fan del blog, ma semplicemente dirti che stai facendo un ottimo lavoro. Come lo so? Imparo ogni volta che ti leggo; riesco a coglierne anche la profondità… E io non sono un tipo molto sveglio! 😉
Innanzitutto complimenti per gli articoli molto interessanti che permettono di districarsi in una materia sicuramente articolata e complessa. Il passaggio dal visualizzare a monitor delle foto a poi vederle in stampa è qualcosa a cui presto o tardi ogni fotografo approda. E qui, a costo di farmi dire che dopo tutti i tuoi articoli letti probabilmente ho capito poco, debbo fare una osservazione. Perché non è lecito adoperarsi affinché una foto vista sul proprio monitor non debba essere simile alla medesima stampata? Provo a semplificare: scatto in raw, elaborò la mia immagine e la porto ad un insieme di caratteristiche che sono quelle per cui ” a me piace”. Terminata questa fase questo e’ il mio punto di riferimento per ottenere quello che voglio quale potrebbe essere altrimenti? Mi aspetto quindi che il risultato in stampa sia conforme a quello che ho elaborato. Tralascio volutamente per non essere troppo prolisso le considerazioni che assolutamente condivido sulla diversità intrinseca degli apparati, dei supporti, e delle condizioni di luce ma una base di riferimento deve esserci, altrimenti e’ il caso che mena la danza. Leggendo i vari articoli si ha pero’ la percezione che la coerenza di cui sopra sia una una mera chimera a cui vanamente si aspiri.
Massimo, grazie per la domanda che mi dà l’opportunità di spiegare meglio il mio pensiero. In breve: sono totalmente d’accordo con te, non discuto neppure sul fatto che il primo riferimento sia il monitor. Ed è assolutamente sensato, come tu scrivi, adoperarsi perché ci sia una corrispondenza tra il risultato a schermo e quello su carta nel momento in cui il primo ci soddisfa. Il problema dal mio punto di vista è diverso e si divide in diverse considerazioni.
La prima è questa: prendere come riferimento l’immagine a monitor, con tutte le sue possibili variabilità, è una prassi relativamente recente. Se guardiamo al passato, c’erano i negativi a colori e c’erano le diapositive. I negativi erano tradizionalmente destinati alla stampa, le diapositive potevano essere proiettate o stampate (di solito con una tecnica denominata Cibachrome, poi ribattezzata Ilfochrome). Ai gloriosi tempi della pellicola non c’era modo di sapere a priori se un negativo avesse una dominante, quali fossero esattamente i colori e via dicendo: si procedeva partendo da una base ragionevole di filtraggio al momento della stampa, si valutava il risultato del provino e si correggeva. Un bravo stampatore con un buon analizzatore colore poteva ottenere un risultato eccellente in due round di stampa, e spesso uno solo era sufficiente per lavori non particolarmente complessi. La stampa da diapositiva era diversa: visualizzando la trasparenza era possibile capire se avesse problemi di dominante o simili, e anche lì si poteva (in stampa) agire opportunamente. Il succo però è questo: era la stampa a fare fede, soprattutto nel caso dei negativi. Il provino prima, la versione definitiva poi. Inoltre, che la stampa da diapositiva potesse offrire la stessa ricchezza tonale e cromatica era semplicemente fuori discussione: si cercava una compatibilità, non di produrre un clone su carta della trasparenza originale. Chiunque accettava che fosse una missione impossibile.
Il digitale ci ha fornito mezzi di lavoro impensabili solo pochi anni fa e ha sradicato completamente certi flussi di lavoro. Uno dei problemi, a mio avviso, è che ora abbiamo da un lato la comodità di visualizzare subito un’immagine a monitor; ma paghiamo questa comodità con la tendenza a fidarci ciecamente del monitor stesso, come se la rappresentazione che ci fornisce fosse assoluta e intoccabile. La semplice considerazione che possiamo impostare, a livello di calibrazione, punti di bianco e luminanze diverse dovrebbe suggerirci quanto questa convinzione sia illusoria, in realtà. Quello che possiamo e dovremmo fare è cercare di partire da un set di condizioni ragionevoli e muoverci da lì. Quindi rovescerei il problema: ha perfettamente senso cercare di allineare monitor e stampa, ma solo se specifichiamo bene le scelte di calibrazione del primo e le condizioni di visualizzazione della seconda.
Ricordo un episodio: una sera ero in un ristorante con due colleghi, e uno portò un libro a cui avevamo lavorato, fresco di stampa. L’ambiente in cui eravamo aveva un’illuminazione estremamente debole, sufficiente per vedere ma inadatta per qualsiasi valutazione; lo sapevamo bene, ma non avevamo alternative per dare un’occhiata al nostro lavoro. Sfogliammo senza impegno il volume e nessuno di noi ebbe nulla da ridire, anche se sapevamo di essere in condizioni di osservazioni ridicole, sulla densità delle immagini. Ci sembravano sensate. Invece no: erano molto più scure di quanto avessimo pensato – ma la cosa divenne ovvia soltanto nel momento in cui le osservammo sotto una luce intensa e appropriata. Il loro contrasto con il bianco della carta era evidente, a quel punto. Nelle condizioni in cui eravamo la prima volta, la carta appariva grigiastra (anzi, giallognola, visto che l’illuminazione era molto calda), e le immagini erano sì scure, ma avevamo imputato il fatto alle condizioni di osservazione.
Rovesciando la medaglia, se decidiamo di lavorare con un monitor la cui luminanza è impostata a 200 cd/m2, sarà veramente difficile se non impossibile fare il match della nostra visualizzazione con quella di una stampa, perché il monitor è di gran lunga troppo luminoso. In questo senso auspico delle scelte ragionevoli quando si vada a cercare un match tra due rappresentazioni così diverse.
Infine, a mio modo di vedere, deve vincere il buonsenso: a prescindere da questi discorsi, da un lato dobbiamo fare il possibile per ottenere una coerenza di rappresentazione; dall’altro dobbiamo anche accettare che una coerenza assoluta non sia raggiungibile proprio a causa delle intrinseche differenze dei due media (elencherei la gamma dinamica per prima, in cima alla lista), soprattutto su certe immagini.
Grazie ancora per l’osservazione, a presto!
Marco, credo che il raffronto con l’analogico sia illuminante. Se torniamo al passato, al bianco e nero per essere ancora più essenziali, a nessuno sarebbe venuto in mente di cercare una coerenza con la stampa. In fase di esposizione e successivo sviluppo si cercava di ottenere il miglior negativo possibile. Il che significava non troppo trasparente nelle ombre e non troppo denso nelle luci, cercando di far cadere i dettagli importanti della scena nella parte più ripida della curva sensitometrica. A quel punto, per la stampa era un’altra storia, da quel negativo si cercava di ottenere la stampa migliore possibile, cercando la giusta esposizione, la giusta gradazione, mascherature, bruciature ecc. Tra negativo e stampa c’è una parentela, ma visivamente sono l’opposto, o quasi. Nel digitale il tavolo luminoso è sostituito dall monitor e il problema, a mio parere, quello che crea tanta confusione, è che l’immagine che vediamo a monitor assomiglia molto di più a quello che possiamo stampare di quanto succedesse prima, il che ci crea l’illusione di poter ottenere due risultati uguali. Cosa evidentemente impossibile. Ma per capirlo bene bisognerebbe seguire qualcuno dei tuoi corsi sulla quadricromia, ad esempio :-). Perché in tal modo le differenze tra monitor e stampa, viste da vicino, diventano molto più chiare.
Per quanto riguarda la stampa da diapositiva di un tempo, i dibattiti di allora relativi alla diversità dei risultati non erano molto diversi a quelli di adesso. 🙂
Grazie ancora per tutto il lavoro che fai.
Grazie Marco per il tuo preciso feedback a cui voglio aggiungerei ancora qualche ulteriore riflessione. Il raffronto con l’analogico a cui fai riferimento, e anche Luca quando dice che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di cercare una coerenza con la stampa, e’ vero ma è condizionato da un vizio di fondo. Ognuno di noi quando produce uno scatto di fatto “interpreta” una scena, nella post produzione il livello di interpretazione, subordinato alle capacità tecnico-espressive, si amplia e si arricchisce. Ora, nell’analogico le possibilità espressive nell’ambito della pp erano sicuramente molto più limitate di oggi ma comunque sia quando stampavo il b/w o usavo il cibachrome cercavo di raggiungere nella riproduzione su carta “l’idea” dello scatto che avevo in mente (compatibilmente con l’impressione del negativo o positivo su cui i margini di manovra erano limitati).
Nel digitale non è’ che il concetto di fondo di sia cambiato, tutt’altro. Sono cambiate questo si, in modo esponenziale, le possibilità di intervento in pp. E si è’ anticipato di un livello (immagine a monitor) la possibilità’ di dare forma compiuta alla propria idea di scatto.
…….. ho dato un “enter” di troppo prima di averti ringraziato per questi spazi che sono un momento di crescita e confronto.
Un saluto,
La solita maledetta invidiabile capacità di rendere comprensibili concetti molto intricati…. Il tutto condito dal discorso di fondo : i numeri sono importantii, ma usiamo sempre la testa.
ho letto con molto interesse l’articolo e voglio portare la mia modesta esperienza personale, lavorando in ambiente window e con monitor a gamut esteso che copre lo spazio colore adobe rgb, ho soddisfacenti risultati con parametri di calibrazione di 80cd/m D65 gamma 2.2 in questo modo ottengo stampe con colori fedeli e mai troppo scure o troppo chiare
Molto, molto, molto utile e di facile comprensione, sopratutto per chi, come me, è alle prime armi con “i colori” 🙂
Buonasera Marco,
scusami se mi permetto, però dal tuo post non ho capito la risposta nel concreto alla questione posta dal lettore che semplifico così:
Mi trovo a lavorare su un monitor profilato con colorimetro, diciamo che per esempio sia un monitor pessimo di un portatile che abbia un gamut pari al 70% del profilo sRGB.
Domanda: il workflow potrebbe essere di impostare tra le preferenze colore di Photoshop lo spazio di lavoro RGB profilato con colorimetro e selezionare di convertire il file in RGB di lavoro con intento percettivo?
In questa maniera ricondurrei tutte le informazioni fuori gamut dentro il mio gamut monitor. L’accortezza dovrebbe essere prima del salvataggio finale di convertire il profilo colore del file da spazio sorgente “profilato” a uno spazio di destinazione standard (sRGB o Adobe RGB, ecc…)
Grazie per il chiarimento
Maurizio
Ciao Maurizio,
personalmente sconsiglio questa prassi per molti motivi.
Il primo è che convertendo in uno spazio di lavoro ancora più piccolo di sRGB rischi di eliminare dei colori originariamente presenti.
Il secondo è che utilizzando l’intento percettivo, nel caso ci siano dei colori fuori gamut, tutti i colori cambiano – e non lo vorrei.
Il terzo è che ci sono elevate probabilità che il profilo colore che descrive il monitor non sia bilanciato nel grigio, e quindi potresti cliccare con un contagocce – ad esempio – per rendere neutro un punto neutro e alterare senza accorgertene il bilanciamento cromatico.
Morale: il profilo colore del monitor, così come quello di un qualsiasi dispositivo, non dovrebbe essere utilizzato come spazio di lavoro, mai. Serve solo per la rappresentazione, e di quella si occupa il sistema operativo. Al massimo, nel caso di un profilo di stampa, potrebbe avere senso convertire come ultima operazione il file subito prima di stamparlo, ma non vedo personalmente alcuna utilità reale in questa prassi: c’è la soft-proof per capire cosa succede ai colori.
La cosa migliore è non uscire mai dallo spazio colore originale del file, ammesso che sia uno spazio standard, a meno che non ci siano reali e seri motivi per farlo. La visualizzazione, a mio parere, non lo è: anzi, la conversione è dannosa più che utile.
A presto!
MO