Credo che questa sia la roadmap più importante da quando ho iniziato a tenere questo blog. È la prima che scrivo dall’estero (ho iniziato a scriverla in uno degli Hub interni al FESPA, finendola dopo il mio rientro a casa) e parte da una prospettiva diversa, meno locale, sulle cose delle quali parlo di solito.
Il FESPA è la Federation of European Screen Printers Association ed è un ente no-profit con sede a Londra che organizza i più grossi eventi mondiali nell’ambito della stampa serigrafica e digitale. Il motivo per cui ho partecipato al FESPA 2014 di Monaco di Baviera è curioso. Nel maggio 2013, a Grafitalia, tenni una serie di seminari su diversi aspetti di CMYK presso lo stand di Teacher-in-a-Box. Alla fine di uno degli interventi venni avvicinato da un visitatore di nome William Khabbaz, che si presentò come un FESPA representative. Mi chiese se conoscessi FESPA e se avrei accettato di parlare in uno dei loro eventi futuri. Il più vicino sarebbe stato a Londra nel mese di giugno, e mi invitò a partecipare anche se la lista degli speakers per l’evento era già chiusa. Ma, mi disse, si sarebbe potuto fare a Monaco, l’anno dopo. Ovvero, ora.
Non mi recai a Londra perché la fiera era incastrata in mezzo a una serie di impegni personali che non mi davano scampo. Mi scusai con William via mail e ci accordammo di risentirci in inverno. A febbraio mi contattò così Michela Marcantonio, organizzatrice degli eventi, e decidemmo che avrei fatto una serie di interventi presso i loro stand a Monaco nel mese di maggio. Mi venne chiesto di redigere un programma ad argomento libero e feci alcune proposte che vennero subito accettate.
La fiera è sostanzialmente divisa in tre settori: Digital, Fabric e Signage – ovvero stampa digitale, stampa tessile, insegne e tutto ciò che è luminoso. Tradizionalmente imperniata sulla stampa serigrafica tradizionale in campo tessile, si è aggiornata negli ultimi anni per aprirsi alle nuove tecnologie della stampa digitale: in ambito tessile ma non solo. I miei interventi sono stati sei, tutti in inglese, su quattro giorni: due sulla gestione del colore (livelli base e intermedio), uno sul potere del metodo Lab, uno sulla correzione del colore in ambito tessile, uno su come maneggiare i colori fuori gamut – un problema delicato nel campo della stampa digitale ancora priva di un vero standard a differenza di quella tradizionale, e infine uno sulla preparazione dei PDF con particolare rilievo ai formati del sottoinsieme /X specificamente dedicato alle arti grafiche.
A breve dovrebbero andare online dei video, visto che i workshop sono stati tutti ripresi, e li segnalerò naturalmente su questo blog. Il contenuto degli interventi in un certo senso non è estremamente rilevante, perché sono cose di cui ho parlato molte volte, anche se le mie aspettative quella che sarebbe stata la reazione a questi argomenti all’estero non erano del tutto corrette. Questa Roadmap vorrebbe quindi lanciare uno sguardo obliquo di confronto sulla realtà italiana attuale e quello che si respira da fuori, in una posizione assai più cosmopolita.
Utilizzo questo termine perché la penultima sera ho partecipato alla cena per la consegna dei FESPA Awards 2014 presso la magnifica Löwenbräukeller in pieno centro città. Ero a tavola con altre sei persone, e in sette rappresentavamo quattro continenti: io ero l’unico europeo, due erano canadesi, due nigeriani e due cinesi. Lingua franca di scambio, natürlich, l’inglese. Monaco è d’altronde una grande città cosmopolita: il primo taxista che mi ha portato in città era ucraino, quello che mi ha riportato in albergo, albanese. Tutto è molto integrato, e in un certo senso la sensazione è che il luogo sia meno “tedesco” di quanto non fosse solo una quindicina d’anni fa.
Dico questo perché, per chiunque sia nato come me in Trentino, l’Austria e la Germania sono sempre state inevitabilmente vicine. Posso arrivare a Monaco da casa mia in meno di quattro ore di automobile, che è più o meno quanto impiegherei a scendere a Firenze. L’Alto Adige, la provincia più a nord della mia regione, è bilingue – la mia invece è italiana e non abbiamo bisogno, a differenza degli altoatesini, di dimostrare di sapere due lingue per poter lavorare. Fino a cent’anni fa esatti, la terra che calpesto ogni giorno era austriaca: venne liberata con la Grande Guerra e sentiamo l’eredità di quell’epoca ancora oggi. Un esempio: Rovereto conserva precisissime mappe catastali che risalgono all’Ottocento. Qualcosa che, mi si dice, è praticamente inesistente in grandi città italiane come Milano o Napoli.
Le terre di confine sono cerniere, come certe idee in Photoshop e dintorni. La mia sensazione è sempre stata netta, anche se si è diluita nel corso degli anni: da trentino scendevo a Roma, dove capivo la lingua ma allo stesso tempo assolutamente nulla dei ritmi, dei modi e dei tempi. Semplicemente, mi adattavo. Sempre da trentino salivo a Innsbruck o a Monaco, dove non capivo una sola parola di ciò che mi veniva detto, visto che il mio tedesco si ferma al più elementare lessico di sopravvivenza, ma dove i tempi e le modalità di rapporto tra le persone mi erano ben familiari. In mezzo, in una specie di crepa tra due mondi molto diversi, la mia realtà, mix complicato di elementi che il tempo, la globalizzazione, i modelli ormai generalizzati hanno finito per trasformare da macedonia a marmellata: materia mista ma differenziata prima, magma uniforme ora.
Quando attraverso il Passo del Brennero mi viene sempre in mente la prima volta che mio padre mi portò a Innsbruck: quasi una gita domenicale allungata per chi vive nei dintorni di Trento. È una sensazione strana e familiare che dura per tutto il (breve) attraversamento dell’Austria, lungo quella che penso sia una delle autostrade più belle in assoluto, che a un certo punto si raddrizza infilandosi in mezzo a una foresta – e quello è il punto in cui il mondo diventa Germania.
A Monaco sono stato diverse volte, quasi sempre per ragioni musicali: una serie di concerti spesso imperdibili che in Italia non arrivavano mai. Per la prima volta, ad esempio, a Monaco vidi Peter Hammill, in un club chiamato Nachtwerk che esiste tuttora. L’ultimo concerto, a memoria, fu nel 2009. Conosco abbastanza bene il centro, vero gioiello di architettura e design urbano, ma non ero mai stato a Riem, il sobborgo che ospita la Messestadt, ovvero la città fieristica.
Perché di città si tratta: un’area immensa e piatta sulla quale è stata edificata una struttura incredibile assieme a infrastrutture ancora più incredibili. Il senso della progettazione qui è evidente, nulla è lasciato al caso: le strutture della fiera sono separate dagli hotel che stanno sul lato opposto della gigantesca spianata da un giardino e da laghetti artificiali che occupano metà dello spazio disponibile. La sera, in una zona che pure non è residenziale, si incontrano coppie a passeggio, persone che fanno jogging e che portano a spasso il cane. La metropolitana (ben due stazioni) è a pochi metri di distanza e in venti minuti si può arrivare nel cuore della città. All’interno della fiera il massimo ordine: nessun ingorgo di automobili, parcheggio selvaggio di furgoni, nulla. I piazzali sono vuoti e le aree di ristoro si trovano quasi tutte all’aperto, in mezzo al verde e con serio contorno di fontane. Nessuna coda per i servizi, né per mangiare. Se si alloggia in uno degli hotel vicini, che sembrano un grattacielo sdraiato per quanto la struttura è lunga, si arriva al gate principale in tre minuti. L’espressione che si adatterebbe a Milano o a Roma in questo senso è unheard of. Inaudito.
Il primo giorno camminavo verso il gate e mi sono fermato per spegnere una sigaretta in uno degli appositi contenitori (qui non si gettano i mozziconi in terra: nessuno ti arresta ma, per contrasto simultaneo, ti guardano tutti perché nessun altro lo fa). Mi si è avvicinata una graziosa hostess di colore e mi ha chiesto se mi stessi recando al FESPA. Ho risposto di sì e si è premurata di indicarmi che la porta giusta era circa 100 metri più avanti. Come se non fosse chiaro: c’era un’intera avenue di segnali di benvenuto – ma nonostante questo una persona aveva il compito di indicare ai viandanti la via giusta. All’ingresso, coda da mal di stomaco: almeno 2000 persone in fila per prendere il biglietto. Memore delle code micidiali e burrascose di Milano, mi metto in fila tranquillo. Ma non mi accorgo che sul mio codice c’è scritto VIP, perché in qualità di speaker ho diritto a un accesso veloce. Vengo prelevato, portato a un desk dedicato, e a quel punto ho cronometrato: 45 secondi per il badge, 30 per entrare dal cancelletto più vicino, regolarmente monitorato da un essere umano dotato di lettore di codice QR. Sono passato in un minuto e mezzo scarso.
Le parole d’ordine: ordine, organizzazione e una formale cortesia tutta tedesca. La sensazione che le cose funzionino. Arrivi allo stand e hai una hostess, voucher gratuiti per mangiare e bere, acqua minerale libera, un tavolo, una presa di corrente, un Wi-Fi veloce la cui password arriva in tre secondi sul tuo cellulare. Puntuale e ordinata l’affluenza ai seminari, che, se sono in programma alle 11.00, non iniziano alle 10.59 o alle 11.01, ma al minuto preciso. Internazionale il pubblico, molto più che agli eventi italiani. Vivibilissimo il livello di inquinamento acustico, lontano da certi eccessi che i partecipanti alle fiere locali (soprattutto fotografiche) conoscono assai bene.
Mi sarei aspettato che un pubblico internazionale avesse maggiore dimestichezza con alcuni concetti, in particolare con quelli relativi alla gestione del colore, un argomento del quale mi è stato chiesto di parlare in due seminari diversi di livello distinto: li ho resi consequenziali, visto che erano lo stesso giorno, ed ero preoccupato dal fatto che un approccio semplice ed elementare come quello che utilizzo di solito sarebbe stato probabilmente troppo di basso livello per il pubblico internazionale, che presumevo più abituato a maneggiare certe idee. Non è stato così: i due seminari sulla gestione del colore, argomento che affronto sempre con uno spirito molto pratico, sono stati tra i più gettonati e hanno creato lo zoccolo duro del pubblico dei giorni successivi: una decina di volti che implacabilmente si presentavano alla lezione seguente obbligandomi al classico “oh, hi!” dallo stand al loro arrivo. Il seminario sul metodo Lab ha riscosso più successo di tutti gli altri. Questi primi seminari si sono svolti nel teatro del Digital Hub.
Molto partecipato anche quello sulla correzione del colore in ambito tessile, tenutosi nello splendido spazio del Textile Hub. Ho iniziato dicendo che in realtà non esiste una disciplina specifica per quel tipo di output, quanto una correzione del colore generalizzata, concettuale, ormai sistematizzata. Parlando poi con i presenti, il ritornello che si sente ripetere anche da noi nell’ambito del mondo della stampa genericamente intesa, è sempre quello: è ormai chiaro a tutti che la gestione del colore sia una necessità; ma inizia anche a essere chiaro che servono dei meccanismi per limitare il più possibile le variabilità del processo di stampa, soprattutto in certi ambiti dove i parametri in gioco sono se possibile ancora di più che nel caso della stampa offset tradizionale. Questo implica giocare d’anticipo a livello di preparazione dei files, nei limiti del possibile. E questo è, di conseguenza, appannaggio della correzione del colore come noi la pensiamo. Il problema è semplice e noto: le fluttuazioni del processo mettono in crisi qualsiasi modello di gestione del colore. Se un dispositivo va alla deriva in maniera incontrollabile, non c’è profilo colore che tenga; serve un operatore umano in grado di intervenire in tempo reale e di tenere il timone. Un profilo è in ultima analisi una misura. Ed è dura, veramente dura misurare le nuvole portate dal vento, così come è dura convincerle a non cambiare troppo forma.
Un esempio interessante è quello della stampa tessile. I tessuti vanno preparati opportunamente, prima di essere sottoposti alla messa in macchina vera e propria. Dopo la stampa vanno, naturalmente, asciugati. Un seminario immediatamente successivo al mio sulla correzione del colore ha mostrato alcuni eclatanti esempi di quali siano gli effetti sulla stampa di un tessuto preparato in modo sbagliato: un fattore di variabilità meno presente per la carta, che è soggetta a vari agenti esterni ma che non ha normalmente bisogno di trattamenti particolari subito prima di entrare in macchina.
Nel campo tessile coesistono diverse tecnologie di stampa, con i loro pro e contro: oggi risulta predominante la tecnologia che utilizza inchiostri basati su coloranti piuttosto che su pigmenti. I primi offrono un gamut più ampio ma richiedono più cura nella preparazione del tessuto. I colori normalmente utilizzati sono otto, proprio per ottenere un gamut allargato: e alcuni esempi visti negli stand sono, naturalmente, eclatanti. Con un problema generale, su tutto: ancora non esiste un vero standard di stampa digitale (non solo tessile) a cui sia pensabile allinearsi. Non c’è, per capirci, una caratterizzazione “FOGRA 39” della stampa tessile, anche a causa della tremenda variabilità dei supporti su cui si stampa e delle loro caratteristiche.
In ogni caso, tra chi si occupa ancora di grafica a livello qualitativo elevato, la necessità di uscire affidabilmente in CMYK (possibilmente allargato da tinte piatte) con un flusso di lavoro che preveda la conversione a monte del RIP, immagine per immagine, è elevata. È opinione comune che il sottoinsieme X/4 del formato PDF stia meglio lasciato in pace e che le trasparenze vadano gestite a mano dall’operatore, non dal RIP. Ed è altrettanto opinione comune che il nuovo sottoinsieme X/5 sia ancora più a rischio e che richiederà un tempo di penetrazione lungo prima che tutti i RIP lo riconoscano facilmente. Il tutorial più comune che si sente in materia è anche il più sintetico possibile: “non usatelo”, sottintendendo – almeno per adesso. Sono allineato alla posizione, ora come ora.
In sintesi, stiamo vivendo tempi interessanti, e se è vero che certe professionalità andranno necessariamente a sparire relativamente a breve è anche vero che altre saranno necessarie presto, e sopravviverà chi sarà in grado di rigenerarsi e riciclarsi, per abbracciare alcune nuove sfide che si stanno chiaramente delineando all’orizzonte. Il pubblico professionale sembra sempre meno convinto dai sistemi “turnkey” che permettono sulla carta di convertire da qualsiasi spazio colore a qualsiasi altro spazio colore, incrociando validazioni e certificazioni anche in modalità remota: è tutto molto interessante a livello teorico, ma gli stampatori insistono che le cose funzionano solo quando viene seguito un flusso di lavoro più appoggiato sul processo tradizionale, non basato su una semplice soft-proof, non importa quanto ben calibrate siano le linee di produzione.
Personalmente sono tornato dal FESPA 2014 con un bagaglio di conoscenze e contatti professionali assai interessanti. Ed è (tristemente?) rinfrancante scoprire che in Svezia hanno gli stessi problemi con la compensazione del punto nero che abbiamo noi; che alla fine le persone si rassegnano ad andare all’avviamento macchina per capire cosa materialmente uscirà sulla carta o sulla tela; e che il famigerato inchiostro ciano non è più vivace del nostro in nessuna parte del mondo. Lo sapevamo già, ma toccarlo con mano aiuta a capire che non siamo in media così indietro come penseremmo. Il problema semmai è che la transizione è tutt’altro che conclusa, e tutti sono indietro o galleggiano attaccati a un salvagente. Ma non siamo affatto in una fase stabile, e a Monaco questo si percepiva. Anche perché le cose che veramente attirano, ora, partono dal basso e non dall’altro. In tempi di crisi industriale, un’analisi fatta da un consulente tedesco sulle linee di credito dovrebbe essere interessante, no? No. Partecipanti: due – il relatore e un suo collega. Il resto del pubblico non sembrava avere problemi con le linee di credito. E scusate, questo non è credibile al giorno d’oggi, perché quei problemi li abbiamo tutti.
Quello che fa impressione è l’atteggiamento estero nei confronti del mercato, che è probabilmente ciò che rende noi italiani di serie b in diversi casi. Molto quadrato, molto pragmatico, con un’idea di bilancio e di budget che pur guardando al pareggio e al profitto non reprime la creatività sfrenata, non la inibisce. E ascolta un’idea. Parlando con gli operatori, si scopre che le cose funzionano meglio che da noi pur con la stessa contrazione di mercato: meno stampa in assoluto, tirature in ogni caso più basse, e via dicendo.
Mai come dopo questa avventura credo che il problema sia innanzitutto culturale. Ho toccato con mano che agli americani e ai cinesi non importa nulla che tu sia italiano, congolese o turco. Se dici cose sensate, che loro riconoscono come loro problematiche, ti ascoltano. Se prometti che puoi gestire tutto il flusso del colore con una sola postazione, via device link, con profilazioni incrociate… reagiscono diversamente. “Crock”, “phony” e “marketing campaign” sono le parole che girano. Vale la pena di fare una riflessione su questo. C’è più gente che vuole sentire parlare di Lab che di intenti di rendering, una volta che ha toccato con mano che gli intenti di rendering non risolveranno veramente il problema del gamut. Ed è triste, in un certo senso, ma chiarissimo per chiunque si fermi più di un’ora in un contesto come il FESPA: dove ci sono tecnologie che si spingono avanti in maniera impressionante, ma dall’altra parte c’è ancora la forte richiesta di un approccio artigianale, dove tutto non sia ridotto a numeri ma ci sia senso per sperimentare.
Sentirmi chiedere, alla fine di un seminario, se posso mostrare come fare una quinta lastra Pantone in Photoshop per gestire un blu particolarmente intenso e verificarne il preview in Acrobat è stata veramente una sorpresa. Ma sentirmi dire, dopo averlo fatto, che quasi nessuno lo sa più fare a mano, né sa fare il tuning della cosa con una hard-proof davanti, mi ha sorpreso di più. Domande come “posso fare la rimozione del colore di processo sotto il Pantone? E conviene farlo? O devo mescolarli? E come?” è stato sorprendente al punto di farmi ridere spontaneamente. Spero di tornare al FESPA nel 2015 (si terrà a Colonia) e scoprire che le cose si sono assestate in una direzione o nell’altra. Ma è un fatto che il momento sia arioso e transitorio, nel bene o nel male. E la mia intenzione, se sarà possibile, è quella di confrontarmi di più con le problematiche del resto del mondo in futuro. Sono italiano, ma non conta: come ho sottolineato se si dicono le cose che risuonano a dovere, la gente ascolta – e non guarda alla cultura, al colore della pelle, alla razza, all’età.
Finisco con dei ringraziamenti doverosi: a William Khabbaz e Michela Marcantonio, per avermi fortemente voluto a questo FESPA e avermi affidato ben sei seminari sui quasi cento complessivi, dandogli tutta la visibilità possibile. A Marie-Luise e Alina, dell’organizzazione, per la loro gentilezza e disponibilità. A Sharon Lockwood e Marsha Winn, le due “primule rosse” del pubblico che hanno seguito ogni workshop dall’inizio alla fine, con le interessanti discussioni che seguivano. A tutti quelli che hanno scritto dall’Italia… ogni giorno, anche più volte al giorno. Spero di non dimenticare nessuno: Davide, Gianni, Annalisa, Paola, Fabrizio… e tutti quelli che non ricordo in questo momento. È stato infinitamente più facile stare “out there” con voi alle spalle. Grazie davvero di cuore.
Auf wiedersehen, München!
MO