Questa Roadmap sarà diversa dal solito, perché questa uscita è stata probabilmente la più “diversa” tra tutte quelle che ho fatto nella mia carriera.
Breve inquadramento: un workshop di una giornata sulla post-produzione della fotografia di paesaggio, a conclusione dei lavori del festival fotografico “La misura del paesaggio” svoltosi a Pentedattilo (RC). Un intervento che si innestava alla fine di un corso di fotografia tenuto da Filippo Romano, noto professionista attivo soprattutto nel campo della fotografia architettonica ma dedito anche a un suo percorso di ricerca molto personale sul paesaggio: una parola suggestiva quanto sfuggente. Il tutto organizzato nel contesto del festival da Alessandro Mallamaci, che chi segue questo blog ha già avuto modo di conoscere, anche se magari solo virtualmente.
La mia quarta discesa in Calabria nell’arco di un anno e mezzo; inevitabilmente, la mia discesa tra un gruppo di persone che a dispetto della distanza geografica hanno finito per diventare amiche. E, naturalmente, gli imprevisti. In ordine sparso, vediamo.
Sapevo che il corso di Filippo Romano prevedeva la partecipazione di una quindicina di fotografi. Alcuni di questi erano già stati miei allievi nei CCC di Reggio Calabria, e quindi ero pronto a discutere con loro alcune tecniche di post-produzione adatte al paesaggio. L’idea era quella di mettere colloquialmente alcuni argomenti sul tavolo e lasciare che il programma venisse costruito dalle esigenze dei presenti e da quelle delle loro immagini. Pochi giorni prima vengo a sapere che, essendo il workshop aperto anche agli esterni, gli iscritti non sono quindici, ma quarantatré. In realtà sono poi lievitati, credo, a cinquantadue. Rapido cambio di rotta: un pubblico di cinquanta persone è una cosa totalmente diversa rispetto a uno di quindici; impossibile interagire individualmente con tutti. Quindi, decido, PPW: il flusso di lavoro di Dan Margulis per intervenire su colore e contrasto con poche e semplici mosse. Metà del programma sulla percezione e sulle ragioni dell’intervento, e poi dimostrazione pratica dell’utilizzo del pannello PPW. Con un dubbio: sarà il programma adatto al taglio dato da Filippo? Io non avrò seguito il corso, e voglio dare un senso di continuità al mio discorso. Decido che una rapida interazione con lui il giorno prima dovrebbe essere sufficiente.
Mi sarei aspettato un pubblico proveniente da Reggio Calabria e dintorni, visto che il tutto gravitava attorno a Pentedattilo, che da Reggio dista circa mezz’ora di macchina. No: Cosenza, Catanzaro – anche due ore di macchina per raggiungerci. E qualcuno parte addirittura da Roma perdendo l’aereo e facendosi il viaggio in vagone letto nella notte tra venerdì e sabato.
Infine, per una serie di motivi troppo lunga da spiegare, mi ritrovo seduto su un jet Alitalia pronto a rullare dalla pista dell’aeroporto di Linate, quando decido istintivamente di spegnere un interruttore nella mia testa. Ho l’istinto che è meglio che io non arrivi al Sud con pensieri che poco hanno a che fare con quello di cui dovrò parlare, perché nei pochi momenti liberi ho sbirciato il lavoro di Filippo, e già che c’ero anche quello di Marco Rigamonti, fotografo piacentino presente al festival con un’interessante mostra intitolata “Stessa spiaggia, stesso mare” e con la presentazione del libro omonimo. E il loro lavoro è diverso ma attraversato da un filo comune che mi intriga. Decido che devo concentrarmi su quello e – clic. Nel momento in cui l’aereo decolla, il mio mondo rimane alle spalle, per quanto possibile.
Scelta corretta, in retrospettiva. Quando Alessandro e Marco vengono a prendermi all’aeroporto, ci rechiamo in città per pranzare e ci trasferiamo poi verso Pentedattilo. Percorriamo la Statale 106 fino a inerpicarci per una stradina scoscesa che ci allontana dalla costa. A un certo punto, senza quasi che me ne accorga, Alessandro ferma la macchina in una piazzola, un piccolo belvedere, e mi dice: “è qui”. E io non credo ai miei occhi. Ho sbirciato qualche foto del luogo sul web, prima di partire, ma vi prego: non fatelo. Nessuna fotografia può descrivere davvero Pentedattilo, perché cade quasi inevitabilmente nel trabocchetto della cartolina, della rappresentazione iconografica. Pentedattilo semplicemente non può essere descritto – si può solo attraversarlo e farsi attraversare. O, in alternativa, non entrarci affatto.
Parlavo con un amico, al ritorno, e gli ho scritto che quel luogo è uno dei più potenti che io abbia mai visto. Se in positivo o in negativo, non lo so. Certamente ha una presenza fuori dal comune. Un silenzio assordante, come è stato definito stamattina da Giorgio, il vero custode del borgo ormai totalmente disabitato da quasi sessant’anni. Ci vive solo una persona, caparbiamente. Il resto è in parte in completa rovina, in parte tornato debolmente a vivere grazie a preziosi interventi mirati supportati anche da uno sforzo della Comunità Europea. Qualche artigiano è tornato nel borgo: ma nessuno ci dorme, se non sporadici turisti che affittano i pochi stabili agibili. Credo di ricordare che qualcuno mi abbia parlato di un totale di ben tredici posti letto.
E la gente di Pentedattilo? Sono rimasti in sessanta, circa, e vivono nella nuova Pentedattilo che è nata circa un chilometro più a valle, davanti a un paese che è collassato su se stesso e che tuttavia sembra reggere da solo il peso mostruoso della montagna sovrastante, sulla quale troneggia il vecchio castello a sua volta fatiscente e crollato. Forse Matera può suggerire qualcosa di simile a questo luogo, ma per qualche motivo Pentedattilo è più straniante. Si dice che ci siano delle presenze di cui nessuno vuole parlare: sono troppo razionalista per crederci, ma posso assicurare che attraversare le stradine che lo percorrono non è affatto un’esperienza normale. E se un fantasma esiste, a Pentedattilo, è quello dell’assenza. Che qui, per dirla con Nazim Hikmet, dondola letteralmente nell’aria come un batacchio di ferro.
Sabato, dopo il mio arrivo, ho occupato il pomeriggio a chiacchierare con Marco e Filippo, che stava facendo uno screening delle fotografie raccolte dal suo gruppo di allievi in diversi luoghi dei dintorni, e ho cercato di farmi un’idea della loro poetica. Avevo le idee molto confuse su cosa avrei detto, e la cena della sera in un pub di Pellaro ormai noto a tutti i partecipanti a questi eventi non ha aiutato: eravamo, credo, in sei, e siamo riusciti a prosciugare quattro litri di birra. Per uno come il sottoscritto che non beve mai è stato il colpo di grazia. Restare a chiacchiere a loro modo silenziose fino quasi alle due di notte ha creato la nuvola che mi sembrava mi accompagnasse la mattina di domenica. Il mio workshop era previsto per le dieci.
Ho sempre sostenuto che la prima frase di un workshop è in qualche modo quella che mi conduce poi fino alla fine. Nei consueti cinque minuti di isolamento che mi impongo prima dell’inizio non trovavo un incipit che mi sembrasse sensato. Ma quando alle dieci in punto ho parlato la frase mi è quasi uscita da sola: “Eccomi qui, il trentino che viene in Calabria…” Perché era esattamente quello che sentivo in quel momento: soprattutto dopo avere visto le immagini scattate dagli allievi di Filippo nei giorni precedenti. Mi riferivo naturalmente al fatto che quella era la mia quarta discesa; ma anche al fatto che arrivavo da fuori, e che mi sentivo un po’ intimidito dal fatto di dover parlare, sia pure indirettamente, di immagini che riguardano il territorio della provincia di Reggio: una delle zone più belle che si possano immaginare, ma anche una delle più degradate che si potrebbero ipotizzare. Perché il lavoro di Filippo riguarda essenzialmente questo: l’esigenza forte di raccontare una storia di passaggi; passaggi di tempo, passaggi umani, passaggi della natura su uno scenario che è ormai una contraddizione in termini irrisolvibile.
E la mia prima slide. Una sola parola, pensata prima di partire: “Salutamu.” Una risatina che rompe il ghiaccio. Volevo dire – “per favore, cerchiamo di usare la stessa lingua, ché forse ci capiamo meglio”. Umilmente, costruiamo un linguaggio comune, perché i linguaggi costruiscono rapporti. Linguaggi di parole e di immagini. Perché come Filippo sostiene con forza, la fotografia non è bricolage ma un linguaggio vero e proprio, con la stessa dignità della parola, con le sue regole e la sua estetica. E se pensaste a questo punto che le sue foto siano denunce politicizzate di degrado ambientale sbattute in faccia, sbagliereste. Spero che non me ne voglia, ma per me le sue immagini sono delicate come certe di Luigi Ghirri, pur nel loro essere assai crude. Non gridano per il semplice fatto che non ne hanno alcun bisogno: basta guardare, è il paesaggio straziato che grida da solo. Non abbiamo alcun bisogno di farlo urlare con post-produzioni estreme e spinte. Dobbiamo, semplicemente, imparare a guardare. Una grande lezione. Con una ricaduta, di cui parlerò tra poco.
Un’immagine racconta più di qualsiasi frase, credo. Quella che vedete qui a sinistra riassume lo spirito del tutto. Ne parlavamo con Filippo, all’aeroporto, concordando che questo scatto è splendido nella sua assoluta semplicità. Da sinistra a destra: Filippo Romano, Alessandro Mallamaci, Giovanna Catalano, io e Antonia Messineo. Cosa stiamo facendo? Guardiamo le immagini, ne discutiamo. Ed eravamo a cena: ci avrebbero massacrati di cibo di lì a pochi minuti, avevamo finito tutto, baci, abbracci, all’anno prossimo – ma ancora stiamo guardando immagini. Perché quelle immagini sono importanti. Non ci credete? Ve ne mostro alcune. Non vorrei commentarle, perché parlano da sé: scatti non post-prodotti in alcun modo per mancanza di tempo, mostrati così come sono usciti dalla fotocamera degli allievi. Non sono in grado di attribuirle ai singoli fotografi, perché sono anonime; ma in fondo non è cruciale, questo, perché è il lavoro di un gruppo – non di singoli individui.
La carta che ha concluso il solitario, per me, è arrivata domenica sera. Dopo il mio workshop, in cui ho spiegato perché vogliamo intervenire sulle immagini e come possiamo ottenere colori vibranti e saturi – ma anche perché a volte vogliamo fare esattamente l’opposto, desaturando e spedendo in ultima fila certe parti della fotografia per valorizzare il vero soggetto e guidare l’occhio a guardare ciò che vogliamo che venga guardato, Filippo ha presentato gli slideshow degli scatti realizzati nei giorni precedenti. Con una raccomandazione finale, che per me è stata la chiusura del cerchio: quella di evitare l’autoreferenzialità. Ovvero, evitare che la Calabria parli solo di se stessa. Nella mia mente questo ha risuonato in profondità: il mio Trentino è autoreferenziale al massimo, ma viene visto come una specie di polo opposto a certe aree del Sud. Pia illusione: è solo superficiale, la differenza. Ma anche tutti noi italiani, azzarderei, stiamo diventando autoreferenziali. È autoreferenziale chi prende le difese dei deboli senza difenderli veramente, limitandosi a discorsi accorati sui massimi sistemi che non incidono minimamente su chi si trova in evidente stato di necessità. Magari per colpe non proprie. E quindi ben venga la denuncia silenziosa, non gridata, che educa a un linguaggio che ci stiamo dimenticando, sommersi da Instagram, Facebook, Flickr e quant’altro. Perché queste mostre, a Pentedattilo, hanno attirato mille persone in una settimana. Perché sono finite sulla stampa nazionale. Perché chi le ha volute le ha difese con i denti – non solo idealmente. Per tutti questi motivi e altri.
E questo evento, in retrospettiva, doveva essere a Pentedattilo. Perché quel luogo è come l’impronta di un gigantesco mollusco sulla montagna, lasciata e abbandonata. Non è mia l’immagine, sto citando Josif Brodsky a memoria. Quel mollusco si chiamava civiltà. Ma quella civiltà, per molti aspetti, ha cessato di esistere.
Ne parlavamo, con un barlume incerto di speranza, sulla via del ritorno: Alessandro guidava, portando me e Filippo all’aeroporto che, mi si consenta, è il più assurdo e scalcinato aeroporto di linea d’Italia. Fa comodo a noi quando dobbiamo scendere in quel luogo, ma così com’è strutturato ha ben poco senso. Anzi, non ne ha proprio. A un certo punto Alessandro ha risposto al telefono e abbiamo capito che non si trattava di buone notizie. Neanche a farlo apposta, la notte prima, mentre noi dormivamo nell’ostello della gioventù di Pentedattilo, qualcuno ha appiccato il fuoco al Museo dello Strumento Musicale di Reggio Calabria. Bruciata l’arte, bruciato un patrimonio etnomusicologico, distrutta la biblioteca, distrutti gli uffici. Perché, ci siamo chiesti? Risposta quasi scontata, che non mi va di riportare. Ma, nella logica di ciò che ho scritto sopra, vi invito a leggere l’articolo di Alessandro sul suo blog. Poche parole, alcune immagini: bastano. Le trovate qui. Queste immagini sono come quelle mostrate sopra. Niente di più, niente di meno.
Per finire ringrazio tutti coloro che mi hanno accompagnato in questi tre giorni, sapendo che qualcuno dimenticherò per forza. Non me ne vogliate: siete in tanti, e il fatto che siate in tanti, credo, è la vostra ricchezza e forse la vostra salvezza.
Alessandro Mallamaci, Giuseppe Melia, Chiara Scali, Caterina Morano, Frenci Marra Baldini, Francesco Rotilio, Antonia Messineo, Giovanna Catalano, Francesca Condoluci, Giuseppe Cremona, Daniele Calabrese, Mariangela Giovinazzo, Concetta Fortugno, Massimo Ragona, Angela Serravite, Gianluca Chininea, Walter Cozzupoli, Vincenzo La Rosa, Cecilia Vaccari, Teodora Malavenda, Elena Trunfio. Più tutti quelli che erano al mio workshop, dei quali non so i nomi ma che certamente ricordo tutti assieme, e che ringrazio per l’attenzione e il loro input.
E impariamo a guardarci accanto, una buona volta, senza riempirci di parole inutili che alla fine non significano nulla se non diventano una testimonianza utile al prossimo. Sì, guardarci accanto: qualcuno lo sta facendo. Con fatica, ma non ci sono altre vie. Spero, davvero spero, di poterci essere ancora il prossimo anno.
(Un grazie sentito ad Alessandro e Filippo per il permesso di pubblicare parte delle immagini del workshop. La fotografia di copertina è di Filippo Romano.)
complimenti davvero, ho letto tutto, le tue parole mi hanno trasportato sul posto.
Marco, sottoscrivo tutto ciò che hai scritto. Ah, che brutta bestia l’autoreferenzialità. È il miglior modo per non essere più credibili. È quella terra piena di contraddizioni ha bisogno di essere credibile e non più abbandonata, se mi si passa il termine.