Roadmap #23 – Grafitalia 2013 (Out There)

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Questa è la prima volta che scrivo una Roadmap prima che un evento sia finito. Lo faccio un po’ perché è comunque quasi alla fine, un po’ perché temo di non avere tempo di farlo domani: non sono certo che dopo avere smantellato lo stand a Grafitalia ed essermi spostato a Castellanza per il workshop di domenica mi rimarrà molto tempo.

Lo faccio anche perché questa sarà una Roadmap diversa dal solito, e se deve essere diversa è meglio che lo sia fino in fondo. Parlerò della fiera, certo, ma anche del dietro le quinte, che in questi giorni ha avuto una parte essenziale.

Parto da qui. Penso che tutti sappiano che sono molto attratto dal colore. Molti sanno che sono anche assai attratto dalla musica. Pochissimi però sanno che c’è una terza cosa che mi interessa moltissimo: gli alberghi. Questo dipende molto dal fatto che sono nato e cresciuto in un hotel, e di fatto ci ho vissuto fino al 2001. In aggiunta, ne ho visti più di quanti possa ricordare, di tutte le categorie e di tutti i tipi. Quello che mi è rimasto di quel periodo è l’interesse per come un hotel si pone nei confronti del cliente e anche la strana sensazione di riuscire a comprendere se chi ci lavora è veramente adatto a farlo o meno. Forse perché conosco le dinamiche e le problematiche della gestione di un albergo, e riesco probabilmente a leggere tra le righe piccoli dettagli che mi sono molto familiari.

Di solito detesto supermercati e centri commerciali perché sono dei non-luoghi. Potrebbe sembrare che lo stesso valga anche per un hotel, soprattutto se è immenso come quello da cui sto scrivendo. In realtà non credo che sia affatto così: un hotel mantiene, misteriosamente, l’impronta delle persone che ci passano. Non è affatto asettico come potrebbe apparire a prima vista, e il fatto che le persone si sfiorino nella hall senza conoscersi o si scambino al massimo un cenno con la testa in ascensore non lo rende un non-luogo. Ci sono tracce che rimangono molto visibili, anche se non con gli occhi.

Più che l’hotel in senso stretto, mi interessa lo spazio che occupa. Come è organizzato, come accoglie. Esiste una differenza enorme tra le hall degli alberghi; a seconda di come sono messe le poltrone, i divani, i tavoli, a seconda dell’ubicazione della sala da pranzo – sono completamente diversi. Nel caso di questa fiera ho avuto modo di passare quattro notti filate nell’albergo dove sto alloggiando (se siete curiosi, è l’ATA Hotel Expo Fiera alle porte di Milano). La prossima notte sarà l’ultima. In cinque giorni questo luogo, e in particolare questa stanza (ridicolmente ampia, devo dire) sono diventati in qualche modo il porto di attracco a cui ho riferito tutto ciò che ha ruotato attorno alla fiera.

Sulla scrivania da cui sto scrivendo ho rivisto i seminari, ho riordinato i materiali, ho risposto alle mail, ho tenuto i contatti con il resto del mondo che ho lasciato fuori. Se tutto questo sembra leggermente melodrammatico, chiedo venia – ma è l’unico modo che io conosca per spiegarlo.

Fiera, per me, significa essenzialmente attività didattica, e qualche contatto per il futuro. Gli ultimi sette giorni sono stati finora il più intenso tour de force della mia carriera: i due giorni del CCC di secondo livello a Milano, del quale ho già scritto; poche ore di pausa; poi gli undici seminari, due al giorno con l’eccezione di venerdì 10, in cui ne ho tenuti tre, tutti diversi tra loro. In mezzo alle sessioni c’è del tempo libero, ma è un tempo molto particolare. Si ha la chance di parlare e scherzare con il resto della squadra, di prendere un caffè, di uscire per l’ennesima, canonica sigaretta. Ma in realtà, per quanto mi riguarda, è un tempo di preparazione, prima, e di rilascio, dopo.

Solo in questi giorni ho realizzato che esiste un parallelo molto forte tra ciò che faccio adesso e ciò che ho fatto in passato. Ovvero, suonare. Suonare in pubblico, intendo. All’inizio è terrorizzante, poi con il tempo diventa seconda natura – ma, attenzione, non diventa mai del tutto normale. Non c’è niente di completamente normale nell’esporsi; e che ci si esponga tenendo un concerto o raccontando qualcosa in un seminario è tutto sommato irrilevante. Perlomeno, lo è per me.

Cinque o dieci minuti prima del momento prestabilito succede qualcosa. Posso solo descriverlo come lo svuotamento progressivo dei pensieri, mentre si compiono azioni molto semplici – collegare il microfono, verificare che il PDF giusto sia già aperto, controllare ancora una volta che la cartella con le immagini campione sia pronta in Bridge. È un cambiamento impercettibile dall’esterno, ma cruciale dall’interno. Se non accade, perlomeno per me, qualcosa non va. Perché è vero, ci sono trenta, sessanta, a volte centoventi slides da proiettare, ma non è un copione prestabilito. Il gioco cambia, ogni volta, come quando si improvvisa in mezzo a un brano musicale. E c’è anche un piccolissimo momento di vertigine pochi secondi prima del via, quando sai che è il tuo momento. (Aggiungo, a margine, che il segnale in perfetto stile aeroportuale arriva regolarmente dal banco di Marco Diodato – ormai c’è un codice convenzionale: cinque dita alzate significa “cinque minuti e poi tocca a te”; alla fine, discretamente, due mani alzate significano “hai dieci minuti”, e via dicendo.) Questo per me è un aiuto fondamentale, perché sì, certo, guardo l’orologio, ma in quel contesto il tempo per me è totalmente compresso. In casi limite, come venerdì nel seminario più difficile, all’Innovation Corner, non esiste. Sono perfino riuscito a chiudere uno degli interventi (un’ora e mezza ciascuno) quindici minuti in anticipo con la serena convinzione di essere in orario perfetto. Davvero, non ho alcuna coscienza del tempo che passa: so solo che devo far vedere delle immagini, che devo parlare con il pubblico, che alla fine ci saranno delle domande. Tutto questo avviene in una bolla immobile, in cui il tempo è fermo.

Questo giro è stato diverso dall’ultimo, che è naturalmente quello del Photoshow di poche settimane fa. Le due fiere non sono comparabili: quanto il Photoshow è caotico e zeppo di persone, Grafitalia a causa della sua natura professionale e non amatoriale è di diversi ordini di grandezza più tranquilla. Intendo, è addirittura possibile riuscire a mangiare qualcosa stando seduti – un’operazione che può risultare titanica in contesti come quello della fiera precedente.

Questo implica ovviamente che ci sono molte meno persone, e questo cambia le regole. Non si crea alcuna ressa all’inizio dei seminari semplicemente perché non esiste la massa critica perché si crei una ressa. Un giorno, ed è stata un’esperienza interessante, ho iniziato un seminario per una sola persona. Una, intendo: seduta – era un dialogo a due.

Quello che succede poco dopo però è interessante. Non ci sono molti stand in cui si parli apertamente a un pubblico con un microfono, e questo incuriosisce. Se all’inizio ci sono X persone, dopo cinque minuti se ne sono aggiunte cinque; poi dieci; poi venti. Alla fine vedi quasi la stessa estensione di teste che ricordi dal Photoshow, solo leggermente più disciplinata.

Il comportamento delle persone che arrivano è divertente. Quando accogli qualcuno è sensato offrirgli una sedia, e questo è ciò che abbiamo fatto nel nostro “teatrino”. Ebbene, in media non si siedono. Per un po’ pensi che spariranno dopo pochi secondi, che siano stati attratti solo dal fatto che tu sei lì che parli, ma non è così. Rimangono in piedi fino alla fine, con pochissime eccezioni. Credo che il dieci percento, forse il quindici percento degli astanti a un certo punto vada via. Gli altri restano, e alla fine vengono in fila a chiedere qualcosa.

Questo ha una ricaduta: un seminario va fatto assolutamente allo stesso modo per quaranta persone o per una. Non è il numero che fa la differenza; valutare un risultato dal numero di presenze è la cosa più sbagliata che si possa fare. Se lo fai svogliatamente perché c’è poca gente all’inizio, ripetendo la lezione che conosci a memoria, non si fermerà nessuno. Invece arrivano, e poi non vanno via. In un certo senso questo è assai più appagante di avere trenta persone che ti aspettano al varco quando inizi.

Quel momento, quando dici “buongiorno, benvenuti” ha un sapore assai familiare. Qui non ci sono palcoscenici, ma è lo stesso effetto che si prova quando si esce su un palco vero. Io l’ho sempre assimilato al momento in cui l’asse di legno su cui metti il piede sembra quasi diventare elastica, e ti catapulta sotto la luce in una frazione di secondo. È panico assoluto, credetemi. Ma dura due secondi. Poi te ne dimentichi.

Quando giravo con il mio gruppo, anni fa, e anche in tempi più recenti, ho sempre usato un’espressione che mi sembrava perfetta per descrivere questo modo di essere che durava per tutto un concerto. Lo chiamavo Out There, ovvero “là fuori”. Allo stesso modo, il seminario non è un luogo mentale del tutto normale, forse a causa della distorta percezione del tempo che passa, forse a causa del fatto che sei completamente assorbito da ciò che stai dicendo, e a volte ti escono anche delle strane improvvisazioni a cui non avevi minimamente pensato prima. Quello che succede, però, è che quando finisce devi in qualche modo ridiscendere – tornare alla realtà in cui ti trovavi un attimo prima di iniziare. Ognuno ha il suo modo per farlo. Il mio è quello che chiamo, citando Hammill, l’angolo silenzioso. Ovvero – quando ho finito di parlare con chi ha qualcosa da chiedere, o vuole sapere quale videocorso è più adatto alle sue esigenze, mi allontano e passo cinque o dieci minuti in completo silenzio, isolandomi. Anche se qualsiasi fiera è un tritacarne legato a spazi enormi, corridoi immensi, stand variopinti e rumorosi, esiste sempre un silent corner. Anche se sospetto che sia un silenzio più interiore che altro.

Lo stesso accade prima di iniziare. In quel caso, il silent corner è uno sgabello dietro il banchetto su cui si trova il computer. Cinque, a volte tre minuti per condensare tutto e aspettare il famoso rimbalzo elastico dell’asse, hop, nell’istante in cui metterò fuori il piede. Se la prima frase che dico mi suona giusta so già che arriverò alla fine senza neppure accorgermene. Semplicemente, accade tutto da solo.

Dei concerti ho sempre pensato che fossero un ottimo modo, soprattutto economico, per evitare gli psichiatri. Semplicemente perché canalizzano un’energia, e diventano in qualche modo un piccolo simbolo del lavoro che hai fatto, del tuo percorso – e anche, già che ci siamo, di come sei in quel momento, lì e ora. Posso tranquillamente dire che nel momento in cui iniziavo a suonare smettevo di essere me stesso, pur restando me stesso, e usciva qualcos’altro. Sempre con la mia faccia, sempre con i miei pensieri, ma diverso. E dove andava? Out There.

Vi chiederete cosa c’entri tutto questo con gli hotel di cui parlavo all’inizio. C’entra, perché l’hotel è a sua volta un Out There diverso. Queste strane esperienze on-the-road, in cui condividi molto con altri per un certo numero di ore e poi ti ritrovi essenzialmente solo, sono fenomenali. È esattamente nel momento in cui chiudi la porta della stanza, dopo avere attraversato la hall e preso l’ascensore, che tutto torna in qualche modo reale. I rapporti normali della tua vita riprendono lì: una telefonata, un messaggio, due righe su Facebook. Ma tutto rimane sempre separato.

Non è affatto negativo. Non credo che vorrei essere in alcun altro modo che solo, in quel frangente. Serve per rimettere tutto in circolo, per risintonizzare la testa sui contenuti del giorno dopo, per battermi la mano sulla fronte quando mi ricordo che manca un pezzo fondamentale al PDF, fesso – lo hai lasciato indietro (e allora fuori il portatile, lancia InDesign, aggiungi, rivedi, lima).

Non mi è mai importato suonare per denaro, così come non mi importa più che tanto fare tutto questo per lo stesso motivo. Per quanto mi riguarda, è molto più importante che passi il messaggio – quello che rientra è del tutto irrilevante, almeno in prima battuta. E non rientra nulla, se io per primo non metto in circolazione qualcosa.

In questo senso sono stato eccezionalmente fortunato. Nel week-end scorso, il mio Out There di ritiro era in centro a Milano. Austero, ma accogliente. Anche lì, la stanza una bolla dove tutto sedimenta. In questi ultimi giorni è andata anche meglio. Non avrei potuto trovare un hotel più adatto a questo frangente. La sorte mi ha graziato dandomi una stanza in cui, francamente, potrebbero vivere agevolmente tre persone. Lo spazio fisico di cui parlavo sopra. Ho potuto organizzare gli spazi a modo mio, sono diventati quasi familiari. Peccato fare il check-out, domani.

Ma, com’è giusto, dai vari Out There si rientra. Le uscite finiscono. Li capisco fino in fondo solo in retrospettiva, e hanno sempre il grande vantaggio di spingermi in una direzione un po’ diversa. Esco da queste esperienze sempre con qualche idea nuova. Come spesso accade, su dieci idee almeno nove sono irreali, patetiche o addirittura catastrofiche. Ma una, magari, una sola è veramente buona.

Bella fiera, Grafitalia. Piena di studenti dell’area di Milano (anche se in moltissimi non sanno cosa sia un profilo colore, né i loro insegnanti sembrano preoccuparsene – e lo so perché ho pubblicamente chiesto), piena di grafici, stampatori. Un po’ in crisi, come tutto il settore, ma questo lo sappiamo. Ma è stata un luogo familiare, per qualche motivo, dove per quanto mi riguarda hanno germogliato diverse idee. Si spera.

Una preghiera, una sola. Basta dire che tutto va male. È vero, lo sappiamo, ma continuare a ripeterlo non cambierà le cose. Sono profondamente convinto del contrario, invece: se proviamo anche solo a pensare (non serve dirlo) che tutto può andare meglio, alla fine accadrà. Sembra che qualcuno stia soffocando, ma, forse gli manca semplicemente qualcosa. Un posto dove andare davvero?

Io ho il mio Out There. Mi basta, per ora.

Buonanotte a tutti, alla prossima.

(P.S.: ogni uscita, ogni fiera ha i suoi personaggi cardine. In questo contesto ringrazio davvero di cuore, senza togliere nulla a nessuno, Silvia Grassi, Marco Diodato e Claudia Rocchini. Loro sanno perché. E anche tutti quelli che sono passai a salutare, hanno scritto, mandato messaggi.)

10 commenti su “Roadmap #23 – Grafitalia 2013 (Out There)”

  1. Bello vedere il tuo lato umano. Sembri sempre così tranquillo ed a tuo agio da non lasciare trasparire quella vena di inquietudine, di “ansia da prestazione”. Complimenti. Purtroppo non sono riuscito a passare, ma so che avrai svolto un lavoro eccezionale (come al solito). Grazie per le tue belle road map. Si lasciano leggere così bene che, da sole, varrebbero una pubblicazione. A presto e buon rientro.

    1. Grazie Fabrizio… non è ansia da prestazione, in realtà, e neanche agitazione. Penso piuttosto che sia un momento in cui diventi una cosa sola con quello che fai. Ti giochi quello che hai messo da parte, e sai che puoi anche perdere.
      Penso che sia come diventare serenamente vulnerabile per un po’, senza troppa paura.
      Un libro delle Roadmap? Se trovi un editore, chiama… 🙂

  2. Bella roadmap, la più interessante letta finora. Credo sia stato interessante anche per te scriverla. L’interesse per gli hotel era trapelato un po dal fatto che spesso posti immagini in quell’ambiente..

    1. Già. È uno dei miei ricordi più antichi: per andare a trovare mio padre attraversavo la cucina dell’hotel, dove per inciso lavorava mia nonna. Non era un grande albergo, ma certamente è stato un imprinting. A volte ne parlo con i gestori degli hotel in cui finisco, e spesso c’è un breve lampo di riconoscimento – loro capiscono che tu capisci cosa fanno. E comunque, come ho scritto, sono lo spazio e la sua organizzazione che mi affascinano di più.

  3. Salve, sono uno studente di grafica e “multicanalità”, la seguo da molto tempo, ma non ho mai avuto tempo di scrivere un commento. Colgo il fatto che anche io sono stato in grafitalia, paragonata all’evento di cinque anni fa è nettamente più piccola. Il suo commento su come molti studenti non sanno cos’è un profilo icc mi ha lascito perplesso, ma non solo loro l’anno scorso sono stato in un agenzia grafica, che ha avuto molti problemi e contestazioni con tipografie, dovuti al fatto che utilizzavano nelle impostazioni colore dalla Cs Un profilo Swop coated, monitor mai profilati e così via dicendo. Quando gli ho detto alla mia collega che probabilmente era dovuto a quello mi ha risposto “Intanto sono cose che nessuno guarda”, io allora mi chiedo in che modo è possibile che le cose possano cambire se i futuri lavoratori non sanno questo.

    Grazie per l’attenzione

    P.s. Tra qualche giorno ho un esame su Gestione del colore e norme Iso di settore

    1. Gabriele,
      sono estremamente felice di ricevere un commento come il tuo, per diversi motivi che ti elenco.

      Il primo è la constatazione che evidentemente non tutto è perduto, perché è evidente da ciò che scrivi che conosci il problema e che intravedi anche una soluzione – che alla fine è l’unica possibile.
      Il secondo è che non posso non confermare ciò che scrivi, per filo e per segno. Devo essere molto onesto: le agenzie grafiche che conosco che abbiano affrontato il problema della coerenza cromatica nel loro flusso di lavoro sono rare come le mosche bianche. Questo vale per chi va prevalentemente in stampa così come per chi ha come target principale il web. Le impostazioni colore che hai visto e a cui ti riferisci non fanno altro che confermare ciò che io ripeto sempre basandomi su una statistica fatta da me: il settanta percento delle postazioni grafiche in Italia ha le impostazioni colore sbagliate; il cinquanta percento le ha catastroficamente sbagliate.

      Per questo c’è una spiegazione molto semplice che forse non tutti conoscono.
      Di recente ho acquistato un nuovo computer portatile. La prima cosa che ho fatto è stata l’installazione dei software Adobe con i quali lavoro; versione CS6, in particolare. Appena ho lanciato Photoshop ho aperto per prima cosa le impostazioni colore. Era una prima installazione, semplice e pulita, su una macchina assolutamente intonsa – uscita dalla sua scatola da un quarto d’ora: nessun possibile dubbio di “inquinamenti”.

      Il default proposto da Adobe è il seguente:

      Spazio di lavoro RGB: Profilo del monitor
      Spazio di lavoro CMYK: U.S. Web Coated (SWOP) v2
      [Grigio e Tinta piatta non mi interessano, in questo contesto.]

      Criteri di gestione colore: Disattivato (per tutti i metodi colore)
      Profili non corrispondenti: Chiedi prima di aprire; non fare nulla prima di incollare
      Profili non presenti: non fare nulla

      Ora, credo che chiunque abbia una benché minima infarinatura di base sulla gestione del colore possa intuire che è difficile immaginare delle impostazioni colore peggiori di queste. Non sono soltanto sbagliate: sono ingiustificabili. Ciò che tu hai visto in giro è sostanzialmente questo, perché di norma nessuno mette mano alle impostazioni colore, che non vengono quindi mai modificate.

      È molto facile dimostrare che questa serie di impostazioni può portare a spostamenti cromatici spaventosi, soprattutto all’interno di certi flussi di lavoro RGB. È altrettanto ovvio che, a causa della gestione del colore disattivata, il default è che i files vengano salvati senza profilo, se nessuno se ne cura.
      La speranza che in presenza di un profilo colore non corrispondente l’operatore inesperto faccia qualcosa di sensato è prossima allo zero: si tratta di un fatto essenzialmente psicologico, perché se qualcuno non sa cosa sta facendo e il sistema propone l’eliminazione del profilo (che è esattamente ciò che accade con queste impostazioni), l’istinto è semplicemente quello di togliere dal tavolo ciò che non si conosce. Noi tendiamo a evitare ciò che non conosciamo, semplicemente perché ci fa paura. A quel punto, la frittata è fatta.

      In passato io sono stato accusato in maniera piuttosto esplicita di essere contrario alla gestione del colore: nulla di più falso, sono assolutamente a favore della gestione del colore (con alcuni distinguo su alcune procedure specifiche di CMYK che richiedono una riflessione molto attenta); ma non posso essere a favore di una gestione del colore che viene massacrata in questo modo in primis da chi l’ha promossa ormai tanti, tanti anni fa: ovvero, Adobe.

      Se iniziamo poi a parlare di stampa tipografica, le cose si complicano ancora di più. A Grafitalia ho parlato con diversi operatori, ed è con molto sollievo e speranza che ho riscontrato che finalmente si sta invertendo la tendenza suicida (per la qualità) che aveva invece preso piede negli ultimi anni: gli stampatori più accorti si sono resi conto che se da un lato è necessario integrare la gestione del colore nel flusso di lavoro, dall’altro non esiste una vera alternativa al confronto in tempo reale degli stampati prodotti con una prova di stampa di riferimento, certificata e prodotta come si deve. Sarebbe troppo lungo raccontare la storia dei motivi che hanno portato l’industria tipografica a rigettare in pieno la gestione del colore, prima, e ad abbracciarla tardivamente poi, in una fase in cui le cose si erano così complicate che qualsiasi proposta di soluzione sembrava una soluzione accettabile. Purtroppo non era sempre vero, e il mito della stampa perfetta in aderenza a un profilo macchina che è, di per sé, una burla per il semplice fatto che una macchina da stampa fluttua paurosamente nell’arco di pochissimi minuti, è stato accettato e ha causato ancora più danni. Certo, ci sono le tolleranze, i DeltaE stabiliti dalle norme internazionali, ma… sappiamo tutti come sono andate veramente le cose, in media.
      Avendo avuto la fortuna di lavorare con Alessandro Beltrami, uno dei più noti e seri consulenti italiani che ha perfettamente presente le problematiche e le difficoltà di chi si occupa di stampa tradizionale, ho potuto constatare di persona che le tipografie che hanno adottato un flusso di lavoro intelligente, in cui la responsabilità del risultato viene divisa tra le ottime automazioni che abbiamo a disposizione oggi e una buona dose di sano e vecchio artigianato, ottengono risultati all’altezza delle migliori aspettative.

      Personalmente non vedo vie d’uscita tranne una: educare continuamente, sensibilizzare e dimostrare con i fatti, per quanto possibile, che esistono dei flussi di lavoro sensati e che andrebbero adottati. Nel tempo questo funzionerà, ne sono certo, ma l’importante è non demordere. Va anche detto, a onor del vero, che l’offset digitale dopo una fase di necessaria “infanzia” sta arrivando a una maturità interessante, e alcuni dei prodotti al top della gamma a Grafitalia lo dimostrano molto chiaramente. Questo rende le cose più semplici, ma attenzione: l’offset digitale ridurrà i problemi, ma non li rimuoverà del tutto. Il discorso educativo e culturale deve rimanere, opportunamente adattato alle nuove realtà.

      Grazie ancora davvero per il tuo intervento e auguri per il tuo esame!

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