Photoshop LAB Color – il libro

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Quasi due anni e mezzo fa scrissi un post nel quale raccontavo come mi ero trovato a essere beta-reader del libro Modern Photoshop Color Workflow di Dan Margulis. Replico qui, circa un mese dopo l’uscita del nuovo libro di Dan, che è la riedizione di Photoshop LAB Color, un decennio dopo la sua prima apparizione.

Mi viene in mente un’amica che, anni fa, a una mia proposta di ripetere una certa esperienza che avevamo condiviso, mi guardò non senza un leggero senso di superiorità e mi disse: “non si fanno le stesse cose due volte: o si va avanti, o non ne vale la pena.” Vero. Infatti, non posso riscrivere ora lo stesso articolo, perché la nuova esperienza è stata assai diversa dalla prima. Sono stato beta-reader di nuovo, sempre assieme ad Alessandro Bernardi, e di nuovo con il coordinamento di Daniele Di Stanio; ma le condizioni iniziali, per così dire, erano diverse.

Dan Margulis – Photoshop LAB Color (1st edition, 2005)
Dan Margulis – Photoshop LAB Color (1st edition, 2005)

Questo libro è una riedizione del volume pubblicato dieci anni fa, che porta lo stesso titolo. All’epoca pochissimi usavano il metodo colore LAB, che era rimasto relegato quasi esclusivamente in ambiti accademici e teorici, con ben poche applicazioni pratiche. Il merito di Dan Margulis fu quello di mettere questo metodo colore, che oggi è ampiamente utilizzato e compreso anche dai non-specialisti, alla portata di tutti.

Non a caso, la prima edizione del libro divenne un best-seller: a memoria, rimase al primo posto delle vendite nella categoria “Photoshop” per un periodo di sei mesi. Non sorprende, quindi, che l’editore (Peachpit Press) abbia pensato di celebrarne il decennale.

Molte riedizioni di libri sono dei semplici riarrangiamenti di materiale, con un po’ di nozioni nuove aggiunte più come specchietto per le allodole che per ragioni di sostanza. Chi ha letto tutte e cinque le edizioni di “Professional Photoshop”, sempre di Dan Margulis, sa però che nel suo caso le cose non vanno così. Una riedizione è di fatto una revisione così radicale rispetto al libro precedente che si ha la sensazione di leggere un libro diverso.

Dan Margulis – Photoshop LAB Color (2nd Edition)
Dan Margulis – Photoshop LAB Color (2nd edition, 2015)

Photoshop LAB Color non fa eccezione: chi avesse già la prima edizione, può tranquillamente acquistare anche la seconda, perché le novità sono tantissime. La fotografia di copertina dell’ultima edizione, per curiosità, è di Alessandro Bernardi.

Il fatto che le due edizioni siano molto diverse fa riflettere, perché il metodo LAB non è cambiato in dieci anni: le funzionalità di Photoshop sono identiche ad allora. Ciò che è cambiato è il bagaglio di conoscenze che Dan ha maturato, tramite le sue ricerche personali (che, non dimentichiamolo, hanno portato al flusso di lavoro PPW al quale era dedicato il libro di due anni fa) e tramite gli input che gli sono arrivati dagli utenti delle sue tecniche e da chi ha frequentato i suoi corsi. Tuttavia, la stragrande maggioranza dei concetti espressi nella prima edizione sono ancora validi: sono stati, semmai, approfonditi e sviscerati meglio, ma ben poche cose sono risultate “sbagliate”.

Questa curva di apprendimento, quasi un work in progress in pubblico, è più unica che rara. Conosco persone che non apprezzano l’approccio di Margulis, e questo è lecito. Ma, allo stesso tempo, vedo da molte parti prese di posizione di stampo evangelico sul fatto che una certa tecnica sia l’unica valida, quando non è così. Spesso una tecnica diventa valida semplicemente perché tutti la usano, senza porsi troppe domande. La mia convinzione è invece che le conclusioni, in campo Photoshop come in altri, vanno tratte sull’effettiva e dimostrabile validità di un approccio piuttosto che un altro, ottenuta mettendo a confronto flussi di lavoro e metodologie diverse. E questo è ciò che dà forma al lavoro di Dan, se vogliamo leggerlo nel modo giusto.

Fatto sta che, di nuovo, mi sono candidato a beta-reader quando c’è stata la chiamata alle armi del nuovo gruppo di discussione. Pensavo che rileggere un libro che già conosco molto bene non sarebbe stato così impegnativo. Come spesso accade, mi sbagliavo.

Dopo alcuni capitoli, Dan annunciò che aveva avuto un’idea: il Capitolo 8, cerniera tra la prima e la seconda metà del libro, avrebbe dovuto essere scritto dai beta-readers. Propose che ciascuno scegliesse un argomento da sviluppare, e che lui avrebbe vagliato le proposte.

A gennaio 2015 avevo pubblicato un articolo sulla riduzione del rumore su Fotografia Reflex, e glielo avevo inviato (in italiano) perché ritenevo che contenesse alcune prove del fatto che gli strumenti normalmente utilizzati per ridurre il disturbo digitale inducono effetti collaterali non sempre piacevoli e facilmente evitabili… al prezzo di seguire delle vie anti-intuitive di post-produzione. Avevo semplicemente proceduto per confronto metodico dei risultati, ed ero riuscito a generalizzarne alcuni.

Le mie conclusioni erano molto simili a quelle che Dan aveva raggiunto autonomamente tempo prima. Quando gli proposi, dunque, di scrivere una sezione sul rumore, obiettò che sarebbe stato fuori luogo perché non si era mai parlato di questo problema nei primi sette capitoli, e questa ipotetica sezione avrebbe anticipato un capitolo successivo. “Quindi”, mi disse, “perché non scrivi il capitolo dedicato al rumore?”

Parliamoci chiaro. Scrivere su un blog è facile, tutto sommato. Anche scrivere su una rivista. Se non altro, perché si scrive in italiano e si va sul sicuro. Anche fare un videocorso non è impossibile. Ma scrivere in inglese un capitolo per la riedizione di uno dei libri più importanti della storia nel campo, dovendo affrontare argomenti ed effetti che definire “sottili” è riduttivo… è tutto un altro paio di maniche.

Bob Dylan rilasciò una volta una dichiarazione a Jules Siegel, che è riportata nella biografia (di Bob) scritta da Anthony Scaduto. La dichiarazione si riferisce a ciò che aveva provato scrivendo Like A Rolling Stone:

“È stato come nuotare nella lava, attaccato con le braccia a una betulla. Agitarsi, prendere a calci l’albero, e colpire col piede un chiodo piantato nel tronco.”

Senza drammi, condivido la sensazione. Per circa quindici giorni, in ogni momento libero, spesso fino a notte fonda, ho cercato di dare forma a un capitolo del quale sentivo tutta la responsabilità. Come gli altri capitoli, anche il mio venne passato ai beta-readers, che risposero con commenti incredibilmente (per me) positivi. Era davvero chiaro ciò che avevo scritto? Non potevo crederlo.

Dan aggiunse una breve introduzione e un commento centrale, lasciandomi l’onere e l’onore di condurre la danza. Ero certo, certissimo, che avrebbe tagliato la parte finale, dove riprendo un leitmotiv che pervade tutto il testo e che a me è molto caro: quello della musica; e, più in generale, del suono. Invece no: è rimasta.

Tra le cose che mi interessano in maniera quasi ossessiva ce ne sono tre: il colore, il linguaggio, il concetto di segnale; tutte e tre sono presenti in questo capitolo. Segnale è per me l’opposto esatto di rumore – un rumore che nel capitolo è diventato un segnale indesiderato. Molte volte, nella spiegazione, faccio riferimento al concetto di rumore acustico, che è più facile da mettere a fuoco, e che rivela come a volte siamo noi a vedere come rumore ciò che è segnale per altri.

Coerentemente, aveva senso che le singole sezioni del capitolo portassero il nome di brani musicali, o di interi album. Per la curiosità, e per chi volesse cercare i riferimenti, li riporto qui:

  • She’s a Rainbow
  • Eight Miles High
  • Filigree and Shadow
  • The Whole of the Moon
  • Film Noir
  • The Great Gig in the Sky
  • Bringin’ It All Back Home
  • Signal To Noise

Ogni titolo ha un riferimento preciso a qualcosa che la sezione tratta, o all’immagine utilizzata per dimostrare il concetto o la tecnica che la sezione affronta. Il titolo del capitolo, invece, è di Dan: io ero bloccato e gli scrissi – “Come lo intitolo? Mi viene soltanto ‘The Noise'” La sua risposta fu: The Music of Noise. Perfetto. Gioco, partita, incontro.

Sono citati, perfino nell’indice, due famosi “esperti di rumore” come Keith Moon e Peter Gabriel. All’ultimo ho lasciato l’onore di chiudere il capitolo con una delle frasi più adatte al mondo della fotografia che io conosca. E sì, lo confesso, mi sono implicitamente tolto un paio di sassolini dalle scarpe, tanto per far capire da che parte sto. Il mio scopo, in generale lo scopo di quello che faccio, è cercare di produrre immagini belle, non immagini pulite che non dicono nulla.

Per questo, alla fine affermo senza alcuna paura che

“quando tutte le cose belle e luminose
affondano nella notte
ancora c’è qualcosa nel mio cuore
che può trovare la via
per creare un inizio
per amplificare il segnale
e spazzare via il rumore”

Se qualcuno è interessato, l’originale da cui è tratta la citazione si trova qui.

La mia fatica è mille volte ripagata da quello che considero uno dei più grandi onori della mia carriera. Il Capitolo 13 è mio ma non è mio: appartiene a ciò che mi è stato insegnato, in minima parte supportato da ciò che ho faticosamente cercato di dimostrare, a volte a tentoni. Ed è un tassello – peraltro importantissimo – di ciò che ho tentato di fare negli ultimi anni.

Il mio grazie più sincero va a Dan per la sua fiducia, ai beta-readers che mi hanno scritto in privato, e a chiunque mi abbia messo in condizione, anche senza saperlo, di intraprendere questa strada, qualche anno fa. Non me ne dimenticherò facilmente.

Il Capitolo 13 del libro.
Il Capitolo 13 del libro.

Infine, senza nulla togliere al resto, segnalo una novità assoluta e un altrettanto assoluto picco. La novità assoluta è il Capitolo 15, intitolato LAB and Video, che non esisteva nella prima edizione. Il picco è il Capitolo 6, intitolato Sharpening For the Impressionist: semplicemente, quando questo autore mette la quinta, dà la polvere a tutti. Leggetelo – e resterete sorpresi e frastornati come tutti i beta-readers che hanno avuto l’onore di leggerlo in anteprima. A mio parere, il capitolo più stratosferico e profondo di tutta l’opera, e uno dei più grandi passi in avanti nella comprensione di quel pozzo senza fondo che è la maschera di contrasto.

Se qualcuno leggerà il mio capitolo (e, naturalmente, il libro) sarò ben felice di discuterne qui. Comunque sia, lo scopo di tutto alla fine è il solito: “Receive and transmit: you know that’s it.”

Buon LAB a tutti!
MO

13 commenti su “Photoshop LAB Color – il libro”

  1. Si può essere sorpresi leggendo un libro orientato tecnicamente di aver fatto l’esperienza di una buona Lettura.

    1. Ciao Nicola, non ti so rispondere – se non che in questo momento non ci sono piani in questo senso. Un editore lungimirante potrebbe considerare la cosa, ma non è facile.

      A presto!
      MO

      1. purtroppo è dura comprendere queste tecniche se non si ha un’ottima conoscenza della lingua inglese. Comunque complimenti per il lavoro che svolgi.

        Saluti

        Nicola

    1. Buondì Stefano,
      no, che io sappia non è stato mai realizzato un libro monografico sul metodo LAB in italiano, e in particolare secondo l’approccio di Margulis.

      A presto!
      MO

  2. E’ da molto tempo che seguo Marco Olivotto di cui sono amico e fan. Direi che ha la didattica nel sangue, perchè spiega cose complicate in modo cosi semplice che ti vien da dire come mai non ci avevo pensato prima.
    Ottimo maestro !!!!
    Ciao grande Marco.

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