Il cerchio che si chiude

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Questo articolo sarà molto breve, e non può essere altrimenti. È la naturale conclusione di un altro, scritto circa sei mesi fa, che trovate qui. In quell’articolo racconto di un inaspettato e graditissimo contatto con una persona, Marisa Acri, sorella di un uomo che ha fortemente influenzato la mia formazione, quando ancora ero piccolissimo.

Credo che sia doveroso completarlo oggi, anche se negli ultimi tempi, come forse avrete notato, ho scritto molto poco – perlomeno qui. È un momento di transizione, per vari motivi: ho modificato alcuni dei miei percorsi lavorativi, giro molto più degli anni scorsi e ho impegni in tre diverse sedi universitarie che assorbono molta della mia attenzione, oltre che del mio tempo. Inoltre – e non lo auguro a nessuno – sto contemporaneamente ristrutturando il mio studio e traslocando casa. In questi periodi, tutto ciò che non è urgente passa in secondo piano. E scrivere, ahimè, non è sempre urgente.

Lo scorso week-end sono stato ospite di Officine Fotografiche, un bel centro stampa nei pressi di Salerno, dove ho tenuto uno dei miei corsi. Stavolta, in coppia con Armando Andreoli, che è un grande fotografo oltre che un caro amico – che ringrazio assieme a Giancarlo Caracciolo per avere fortemente voluto questo evento. Il piano originale era di volare a Napoli il venerdì sera, trasferirmi a Salerno, tenere il corso e rientrare a Napoli la domenica appena finito, per salire su un aereo nella primissima mattina di lunedì e raggiungere Venezia, dove dovevo insegnare il pomeriggio. Un discreto tour de force, che avevo anche considerato di fare in automobile – piano poi abbandonato per insania conclamata dell’idea.

Quasi all’ultimo minuto ho deciso di prendere il volo nel mattino di venerdì, in barba agli impegni e all’agenda. Il motivo ufficiale era quello di decomprimere un po’ i tempi; quello reale, sotto sotto, era che da mesi pianificavo d’incontrare Marisa, con la quale sono sempre rimasto in contatto e che più volte mi aveva invitato a Napoli. E così ho fatto.

Ci sono diverse cose che è possibile convincermi a fare: pettinarmi, occasionalmente; cambiare maglione più di una volta alla settimana; in rarissimi casi, indossare una cravatta; riesco addirittura a restare in silenzio, se mi metto d’impegno. Ma una cosa è impossibile: trattenermi quando qualcosa “mi chiama” davvero. L’intento di Marisa era quello d’incontrarmi per mostrarmi le macchine fotografiche di Renato. Non lo posso nascondere: uno dei miei miti, mai incontrato, purtroppo ormai impossibile da incontrare – perlomeno in questa vita. Non potevo dire di no.

Abbiamo trascorso assieme una buona parte della giornata di venerdì, parlando del più e del meno, delle nostre storie personali, andando a pranzo ai Quartieri Spagnoli, passeggiando per Via Toledo. Ho conosciuto tutta la sua famiglia, e al momento di partire per Salerno ci siamo accordati per rivederci domenica sera: un invito a cena, a casa, e le famose macchine.

Quando sono rientrato a Napoli dopo il corso, verso le 19.30, mi sono recato a casa di Marisa. Ho trovato ad aspettarmi un tavolo letteralmente ingombro di scatole, borse fotografiche, inequivocabili forme di antichi apparecchi. Non ho guardato nulla: era una cosa da fare dopo, con calma. Abbiamo mangiato una pizza, parlato della città, della sua bellezza e delle sue difficoltà e ho gradito tantissimo le analisi e le spiegazioni di Maurizio, suo marito, che davvero mi ha illuminato su molte cose che un forestiero, soprattutto se viene dal Nord, non può comprendere da solo.

E poi… in soggiorno. Il tavolo era “mio”, a quel punto.

Marco_e_Marisa_sml

Questa foto è stata fatta al volo, in casa. Tenere in mano una Linhof 6×9 in condizioni spettacolari è stata un’emozione. Non parlerò delle Leica, delle Rolleiflex, delle Yashica e di tante altre cose che ho toccato, con religioso rispetto. Però, credetemi, è stato come chiudere un cerchio immenso: non lungo sei mesi, ma molti, forse troppi anni. Ho guardato quelle fotocamere con la stessa curiosità con la quale, da bimbo, m’intrufolavo in camera oscura per estrarre dalla custodia le fotocamere di mio padre, che mi attraevano come poche altre cose al mondo.

Sto parlando della sottile emozione di armare l’otturatore, premere delicatamente lo scatto e sorprendermi che apparecchi vecchi di forse mezzo secolo ancora funzionano. Di sentirmi raccontare che la camera oscura di Renato era una cabina di legno, nella cucina di casa, e che lì faceva tutti gli esperimenti che poi venivano trascritti sulle pagine di Tutti Fotografi, che io avidamente leggevo. Certi personaggi erano pionieri e di riflesso un po’ lo ero anch’io. Stampare a colori in casa? Nel 1977? Chi non lo ha fatto, non può capire fino in fondo. Ho saputo anche che alle numerosissime lettere dei lettori, anche alla mia di quando avevo undici anni, Renato rispondeva con l’aiuto della moglie, dal soggiorno di casa. Ho guardato finalmente in fotografia i volti di persone che non avevo mai visto e ho provato la strana sensazione di sentire Marisa presentarmi alle figlie – Fabiana e Federica – come “un amico di zio Renato”, un uomo che loro adoravano. Tante storie, tanti ricordi, un passaggio quasi obbligato forse… ma per nulla scontato. Certamente voluto, però.

Kodak film

Questa è una bruttissima fotografia, scattata al volo con il cellulare, ma è per me assai importante. Questa piccola scatola sta ora sul mio comodino, in attesa di un degno posizionamento quando avrò finito di traslocare. È una pellicola invertibile assai particolare, credo ormai impossibile da trovare, a bassissima sensibilità: Kodak la produceva per la microfotografia. La ricordo nei cataloghi, ma non l’ho mai utilizzata. Riposava in fondo a una borsa assieme ad altri rullini, e aveva una sensibilità di 13° DIN. Oggi diremmo: 16 ISO. Sì, sedici.

Era di Renato, ovviamente. Marisa ha voluto che la portassi con me, nonostante il mio imbarazzo nell’accettarla – ed è forse il più bel regalo che potesse farmi. Una pellicola così lenta è un filo sottile che non so bene spiegare neppure se mi sforzo, ma che si è dipanato in un soggiorno al piano rialzato di un bel palazzo in centro a Napoli, una domenica sera, mentre accarezzavo macchine inequivocabilmente vintage. E pensavo – qui nessuno mi potrebbe porre quell’insopportabile domanda: “Dati EXIF?”

Grazie Marisa, ma anche Maurizio, Fabiana, Federica – per avere ricongiunto con tanta grazia questo filo con il mio passato remoto. E, naturalmente, a presto.

MO

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